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Ilide
Carmignani |
||
DAL
REALISMO MAGICO ALLA MAGIA DELLA REALTA' |
Quando
è nato in te il desiderio di scrivere?
A dire il vero ho iniziato a scrivere quando ero ancora molto
giovane. All'Instituto Nacional di Santiago, dove studiavo, tutti noi
studenti impazzivamo per una professoressa di storia. Era una donna
dotata di una forte carica erotica, e lo sapeva bene. Ora, con gli
anni, sono arrivato a pensare che in lei ci fosse qualcosa di
perverso, di dolcemente perverso, che la faceva sentire molto felice
quando quel gruppo di piccoli machos quindicenni - noi - le sbavava
dietro. Un giorno infilai nella macchina da scrivere di mio nonno,
una vecchia Underwood, della carta, quattro fogli di carta carbone, e
quattro veline per fare delle copie (all'epoca non si era ancora
realizzato il miracolo della fotocopiatrice), e scrissi la mia prima
storia - erotica, o meglio porno - sulle "calde avventure di una
professoressa di storia". Fu un successo che passò di
mano in mano finché i fogli non caddero a pezzi. Quando
"pubblicai" il quinto racconto con lo stesso personaggio,
un esemplare finì nelle mani del direttore dell'istituto e
pensai che mi avrebbero espulso, ma non fu così. L'uomo, che
era un amante della letteratura, lesse la mia storia e disse: "Sai
che scrivi abbastanza bene? Mettiamo da parte queste sciocchezze e
d'ora in avanti collaborerai alla rivista letteraria della
scuola".
Già allora avevo ben
chiaro che volevo scrivere, guadagnarmi la vita scrivendo, non essere
"uno scrittore", ma scrivere per il puro piacere di
scrivere. E lo facevo. Scrivevo poesie, racconti, molti racconti -
effettivamente abbastanza influenzati da Cortázar -, di cui
non mi pento, e così, pian piano, un giorno un amico di mio
padre mi trovò un posto come redattore in un quotidiano, il
"Clarín", un giornalaccio scandaloso, ma di
sinistra. Avevo diciassette anni e il mio lavoro consisteva
nell'accompagnare la polizia sul luogo del delitto e durante le
indagini. Vidi molti morti, troppi, e ogni giorno, prima della
chiusura della redazione, alle quattro del mattino, dovevo scrivere
il mio articoletto di duecentocinquanta parole. Il caporedattore, un
tipo di nome Zurita di cui dicevano che non dormiva mai, che viveva
al giornale, che beveva litri di caffè e fumava centinaia di
sigarette al giorno, leggeva il mio articoletto e prima di gettarlo
nel cestino mi diceva: "Questa è una stronzata, è
pura letteratura, scrivi come un giornalista".
Da quel tipo imparai molto. Con lui mi sono fatto la mano. In seguito
ho scritto per la radio. Là ho appreso a lavorare tenendo
conto del tempo. Dovevo raccontare una storia in ventotto minuti.
Anche quella è stata una grande scuola. Insomma, ho iniziato
molto giovane. Quando nel 1970 vinsi il premio Casa de las Américas
col mio primo libro di racconti, vivevo già di quello che
scrivevo, e a dire il vero mi divertivo molto. E la scrittura
continua a divertirmi.
Vorrei
che tu ci parlassi delle tue abitudini di scrittore - García
Márquez, per esempio, lavora ogni mattina e solo alla mattina,
seguendo un rituale ben preciso - e del tuo rapporto con l'atto
concreto dello scrivere...
Il
mio rapporto con la scrittura è passionale e di gran piacere.
Lavoro contemporaneamente a varie storie. Amo il computer, che mi
permette di aprire e chiudere la storia che voglio. Preferisco
lavorare al mattino, perché credo che le idee siano più
fresche. Seguo le ricette di Hemingway che dicono: neppure un
goccetto prima o durante il lavoro e smetti di lavorare solo quando
sai come va avanti la storia. Quando sento che una storia è
finita, quando ho messo il punto in fondo a un romanzo, lo lascio, me
ne allontano per almeno sei mesi. Poi lo rileggo e inizia il faticoso
lavoro di dargli una forma estetica, di renderlo leggibile e
credibile. Sono molto rigoroso sotto quest'ultimo aspetto. Correggo e
ricorreggo. E lascio andare i manoscritti solo quando sento che sono
definitivi e sono sicuro del prodotto finale. Scrivo al mattino, ma
siccome viaggio molto, ho preso gusto a scrivere ovunque. Nella mia
lista degli aeroporti più comodi per scrivere ci sono quelli
di Amsterdam e di Austin, in Texas. E in cima alla lista delle
biblioteche più comode per scrivere c'è quella del
British Museum, perché sotto i tavoli ci sono le prese per il
computer.
Vorrei
sapere quali sono gli autori che hanno avuto maggiore influenza su di
te e quelli che senti più vicini.
Gli
scrittori che mi hanno influenzato e che continuano a influenzarmi
sono molti. Credo che in primo luogo ci siano tutti gli autori di
romanzi d'avventure: Verne, Salgari, Conrad, Stevenson, Coloane,
Melville, Karl May, Kipling, Mark Twain. A loro si sommano Cortázar,
Capote, Hemingway, Hammett, Ambler, Rulfo, Borges, Dos Passos. Poi
tutti i giganti del romanticismo tedesco, da Novalis a Hölderlin,
e subito dopo viene la lista dei contemporanei, che per di più,
con mia grande gioia, sono amici miei. Chi potrebbe resistere alla
vitalità di Paco Ignacio Taibo II, di Soriano, di Jerome
Charyn, di Rolo Diez? E la lista è lunga, lunghissima.
Vorrei la tua opinione sul realismo magico, che per molti
anni in Europa ha significato la letteratura latinoamericana, e
sull'attuale panorama letterario del cono sur.
Penso che il realismo magico abbia compiuto una funzione importante e
che l'opera di García Márquez, di Rulfo, di Carpentier
e di Isabel Allende resterà. Ma credo anche che gli scrittori
della mia generazione si siano discostati da questo marchio di
fabbrica, da questa odiosa denominazione di origine, e abbiano
iniziato a raccontare la magia della realtà. In altri termini,
ci siamo allontanati dall'aneddoto poetico per andare più alla
sostanza delle cose.
Quanto alla letteratura
latinoamericana, a mio avviso, sta attraversando il suo momento
migliore. Sembrava che dopo il boom non ci fosse più nulla, e
questo ha a che vedere con la storia tragica dell'America Latina.
Quelli che per età venivano dopo il boom sono morti nelle
lotte politiche o in terribili incidenti. La poesia si chiamava Paco
Urondo, Roque Dalton, Otto René Castillo, Javier Heraud. Il
romanzo si chiamava Haroldo Conti, Ángel Rama, Marta Traba,
Manolo Scorza. Per fortuna alcuni si sono salvati e grazie a loro
esiste un piccolo ponte generazionale. Io non esisterei come
scrittore latinoamericano se non fossero vivi Juan Gelman e Antonio
Cisneros. E non solo io. Tutta la scuderia di latinoamericani che
oggi riempie le librerie del mondo è in debito con questa
generazione sacrificata. Siamo loro debitori e abbiamo l'obbligo di
difendere quell'etica per cui loro si sono sacrificati.
Più in generale, credo che tutta la letteratura scritta in
lingua spagnola sia sulla buona strada, perché finalmente gli
scrittori spagnoli hanno capito che dovevano abbandonare la Spagna di
paccottiglia delle nacchere. E' stato penoso per loro rendersi conto
che la lingua spagnola la facciamo noi latinoamericani, e quando
l'hanno capito, hanno iniziato a dare buoni frutti. Mi riferisco alle
opere di Muñoz Molina, Landero, Llamazares, Fajardo, che hanno
osato stringere la mano che abbiamo teso loro dicendo: ragazzi,
smettetela una buona volta di scrivere in quel dolce dialetto di
pastori che si chiama castigliano e adottate con noi una lingua di
carattere universale, lo spagnolo.
Infine, non
posso fare a meno di dire che è su un'ottima strada anche la
letteratura scritta nell'altra grande e nuova lingua dell'America
Latina, il portoghese ricreato dai brasiliani. Basta leggere le opere
di Milton Hatoum, Marcio Souza, Eric Nepomuceno, Joâo Ubaldo
Riveiro, Moaycir Sclair, Nélida Piñón...
romanzieri fantastici.
A
proposito del ruolo dello scrittore, Salman Rushdie scrive: "La
narrativa dice la verità in un'epoca in cui le persone cui è
demandato dirla inventano storie. I politici, i media, coloro che
creano le opinioni inventano storie. Allora è dovere dello
scrittore di finzioni cominciare a dire la verità". Paco
Taibo II, parafrasando von Klausewitz, sostiene addirittura che "la
letteratura è un altro modo di far politica"...
Sono perfettamente d'accordo con le definizioni di Klausewitz, Taibo
II e del collega Rushdie. Io credo che abbiamo l'obbligo, coi mezzi
dell'invenzione letteraria, di mostrare il mondo così com'è.
Sono troppi quelli che si incaricano di deformare la realtà
secondo la loro convenienza. La letteratura ha il dovere di tutelare
la verità storica. E nella letteratura c'è posto per
tutto, per il talento, per la creatività, per la stupidità,
per l'umorismo, per tutto meno che per la finta innocenza di coloro
che si rifiutano di vedere il mondo così com'è.
Credo che alcune tue opere, e in particolare Un nome da torero,
potrebbero rientrare in quello che Vázquez Montalbán
definisce "giallo ideologico" inscrivendovi i romanzi del
suo malinconico Carvalho e, ad esempio, i libri di Pennac, Daeninckx,
Sciascia. Il "giallo ideologico" sarebbe un incrocio fra
diverse forme espressive adatto a descrivere una realtà in
crisi...
Condivido l'opinione di Vázquez Montalbán, il quale,
oltre a essere uno scrittore straordinario, è un Uomo Perbene,
e un grande formulatore di sintesi. I nostri sforzi - parlo di Taibo
II, di Rolo Diez, di Mempo Giardinelli e di me stesso - io li
definisco "romanzo militante di salvaguardia della memoria
storica".
Qualche
tempo fa un giornalista di "Repubblica" ti ha definito un
"ecoscrittore" per l'importanza delle tematiche ecologiche
nei tuoi romanzi. Puoi parlarci un po' di questo tuo interesse?
Io mostro il mondo così com'è, perciò non posso
trascurare la gravità del disastro ecologico. Sono un
difensore della vita e pertanto ho il dovere morale, etico, di
denunciare il cammino verso il suicidio di massa a cui ci costringe
l'irrazionalità del capitalismo. Ma non mi piace questa
definizione di "ecoscrittore" semplicemente perché
non mi piacciono le etichette.
Pur
non trascurando l'impegno civile, come abbiamo visto, mi sembra che
per te uno dei fini della letteratura sia anche quello di dilettare
il lettore, e i tuoi romanzi ci riescono così bene da scalare
ogni volta le classifiche dei libri più venduti. Nella tua
opera è molto vivo il piacere di raccontare storie...
Ho sempre saputo distinguere fra il mio atteggiamento etico davanti
alla vita e il mio atteggiamento estetico davanti alla letteratura.
La mia opera cerca di stabilire un ponte coerente fra i due
atteggiamenti. Scrivo di ciò che conosco bene, e conosco molte
cose. Ho visto molto mondo. E siccome sono un buon lettore, so che
agli altri lettori piacciono le storie ben narrate, ma che non sono
disposti ad accettare civetterie pseudointellettuali o attacchi di
erudizione da parte degli autori. Io rivendico il piacere di
raccontare storie, una specie di ritorno alla letteratura orale che
tanto amo.
Il
tuo stile, molto efficace, è sempre essenziale, sobrio. E' un
fatto spontaneo o una scelta?
Il mio stile è sobrio, ma non in modo ricercato. In questo
senso ho sempre presente la lezione di Hemingway, che ha detto: si
possono scrivere ottime storie con parole da venti dollari, ma la
cosa davvero lodevole è raccontare quelle stesse storie con
parole da venti centesimi. Io scrivo, prima di tutto, per capire
meglio me stesso. E questo si ottiene solo senza troppa magniloquenza
letteraria, con la sobrietà del timoniere il quale sa che, pur
avendo tutto il grande mare a disposizione, basta un lieve tocco di
timone per allontanarlo dalla sua rotta.
Nella
tua opera ci sono indimenticabili personaggi maschili: quando darai
vita a un personaggio femminile?
So che devo a me stesso e agli altri un grande personaggio femminile.
Il fatto è che non credo di conoscere ancora abbastanza bene
l'altra parte dell'umanità, la donna. Le donne non smettono
mai di sorprendermi. Tutti i giorni imparo qualcosa su di loro, ma
non ne so ancora abbastanza. Però mi sforzo di riuscirci e un
giorno o l'altro arriverà sulle mie pagine un grande
personaggio femminile.
Quale è, nella tua opera in generale e nel tuo ultimo
romanzo - La frontiera scomparsa - in particolare, il peso del
vissuto, dell'esperienza autobiografica?
Ogni volta che affronto un viaggio mi dico: e ora dove vai carico di
così tanti ricordi, di così tanto amore, di così
tanti sogni? Indubbiamente la mia vita, il vissuto, è parte
essenziale della mia letteratura, perché sono certo di aver
avuto una vita coerente e che se dovessi ripercorrerla lo farei
ripetendo ogni passo, ogni errore, ogni successo. La mia
soddisfazione più grande arriva quando, nei momenti di
debolezza, dopo che mi hanno davvero fottuto, mi metto davanti allo
specchio e vedo un uomo che conosco, un uomo che ha saputo essere
degno della parola compagno. Non ho il minimo problema o alcuna
inibizione a consegnare parte della mia vita e della mia esperienza
ai miei personaggi.
Cosa significano per te le tue radici cilene, il tuo passato
latinoamericano?
Sono nato in Cile, ma sono latinoamericano, intensamente
latinoamericano, orgogliosamente latinoamericano. Non è una
questione di passato, e nemmeno di presente, ma di futuro. Quando sai
che sei depositario ed erede di un crogiuolo di culture impossibile
da nominare senza dimenticarne qualcuna, quando conosci la gioventù
e le speranze del continente, e soprattutto quando sai chi sono i
nemici dell'America Latina, allora ti rendi conto che la tua vita di
latinoamericano si proietta enormemente lontano e porta con sé
una responsabilità che assumi con orgoglio. Sono indio ed
europeo, sono africano e dei Caraibi, sono devoto a mille divinità
e convinto che il destino lo costruiamo noi uomini. Ecco cosa
significa essere latinoamericano.
Cile,
Argentina, Uruguay hanno seguito un'evoluzione simile e sono passati
dalle sanguinarie dittature degli anni Settanta e Ottanta a una certa
democrazia. Come vedi questo cambiamento e quali speranze nutri in
questo processo?
Rispetto le evoluzioni democratiche dei paesi del Sudamerica, ma ho
seri dubbi riguardo alle basi su cui si sostengono. Non concepisco la
democrazia senza sindacati forti, senza contratti di lavoro, senza
una rigorosa partecipazione dello Stato come organo tutelare della
normalità di un paese. Non sono statalista, ma considero lo
Stato un male necessario, almeno per il tempo che impiegheremo a
scoprire che possiamo basare la convivenza umana sul dialogo libero e
fraterno, e non sulla repressione. Oggi Argentina, Cile e Uruguay non
sono dei paesi, sono delle imprese. Il mostruoso modello economico
neoliberale - una visione rinnovata del capitalismo portato alla sua
espressione più selvaggia - è riuscito a imporre il
mercantilismo come valore superiore alla solidarietà, a far
prevalere l'egoismo sulla generosità, la stupidità
sulla cultura. Sono molto critico al riguardo, ma al tempo stesso
sono ottimista. E il mio ottimismo si chiama, per esempio, Chiapas.
Oggi è possibile imporre un modello economico neoliberale
perché i governi devono fare i conti o con le limitazioni che
hanno ereditato dalle dittature, o con la forza che le dittature
continuano ad avere, anche in democrazia, ma esiste pure la volontà
latinoamericana di essere indipendenti, e questo mi rende
ottimista.
Senti di aver avuto un'evoluzione come scrittore da Il vecchio
che leggeva romanzi d'amore alla Frontiera scomparsa, i libri
attraverso i quali sei noto al pubblico italiano?
Un'evoluzione? Non lo so. Ogni libro è un passo in più,
un tentativo di comprensione, di avvicinamento al mondo. Non credo
nella summa. Anzi, credo che ogni libro sia una bella spoliazione
volontaria, una dolce automutilazione che l'autore compie con
evidente piacere, perché era necessaria. Se c'è
qualcosa di cui sono sicuro, è che la scrittura mi da ogni
giorno più gioia. E siccome so con certezza che, più
che uno scrittore, sono un narratore di storie, non saprei proprio
dire quali caratteristiche abbia questa evoluzione, se davvero c'è
stata.
Quale preferisci tra i tuoi libri?
Il libro che più mi piace è una storia di pirati a cui
lavoro già da tre anni. Mi piace per la storia in sé,
perché scrivendola mi sono divertito alla grande e per
l'enorme sforzo che ha significato il lavoro di documentazione.
Ci
puoi raccontare qualcosa della tua incursione nella letteratura per
ragazzi e dei tuoi progetti futuri?
Ho scritto vari racconti per bambini e recentemente ho osato
cimentarmi in un romanzo, non per ragazzi, ma per lettori da otto
mesi a ottantotto anni. E' la storia di un gatto, il mio gatto, che
deve insegnare a volare a una piccola gabbiana. Credo che sarà
pubblicata quest'anno in Italia. E poi lavoro a un altro libro per
ragazzi che ha una storia molto curiosa: un giorno, a Brema,
vicinissimo al monumento alla favola che parla della città, ho
scoperto un'iscrizione su una pietra: "Io sono stato qui e
nessuno racconterà la mia storia". Allora ho deciso di
raccontare la storia di questa persona, un argonauta che si lascia
cadere di notte in città sconosciute e si mette sempre dalla
parte dei bambini.
Quanto ai progetti futuri,
ne ho molti. Il romanzo di pirati. Il romanzo per ragazzi. Un secondo
romanzo amazzonico che correggo e ricorreggo. Un romanzo che racconta
l'ultimo giorno di Butch Cassidy e di Sundance Kid, un libro sopra la
Patagonia che sto preparando assieme al fotografo argentino Daniel
Mordzinski, e una storia d'amore molto bella nella quale tento di far
parlare le meravigliose donne della mia generazione.
Intervista di Ilide Carmignani. Settembre 1996
(Per gentile concessione di "LINEA D'OMBRA")
sta in TROVACINEMA
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