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Domenico Camera |
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Antologia critica |
ANTOLOGIA POETICA |
SU
QUESTA TERRA
L'ubriacante corsa dei tram
L'ubriacante corsa dei tram
ci portava a riva,
come una merce senza riguardo.
Su una spiaggia tra i sassi
dove fermare l'ansia da girovaghi.
Eravamo subito spogli
perché il mare ha poche parole
e vuole nudità.
La pazienza del suo ritmo
ci stancava l'intero pomeriggio.
Le bocche d'acqua rampanti
finivano sempre
schiumando, lunghe e riverse.
Il respiro continuo dell'onda
mi insegnò ad essere caparbio.
Ho imparato anche l'attesa.
Un sole grande
Un sole grande
ci opprimeva, come un assillo.
Uno steccato rigava d'ombre corte,
pendenti come una benedizione,
il nostro riposo, lunghissimo.
Con gli occhi chiusi
si facevano i nostri nomi,
a turno.
Al bagno si andava su carboni
accesi, avanzando verso l'acqua
come trampolieri.
E l'umida lingua di sabbia
era un premio.
Il mare freddo
ci abbracciava
con un brivido scivoloso nel fondo.
LA STESSA STRADA
Stadio di Marassi
Agita le mani e fischia, violento e disarti-
colato. Grida contro i nerazzurri, incita i blu-
cerchiati:"Suarez porco. Dai, Cristin, stupido...".
Può essere un capoufficio (ha la testa
in calvizie). Può essere un padre, un figlio;
uno spirito audace, un coniglio;
un consigliere dell'ACI, un invertito (ha le mani
molto curate e un profumo acuto). Può essere
tutto. Anche un uomo impèortante, un genio;
o può essere un uomo per gli uomini perduto.
Stranieri
A mezzogiorno il vento del Melogno
impetuoso taglia il viso
e sul ponte quasi ti trascina.
Il corso d'acqua stenta
e come tutti gli spenti torrenti
di Liguria in una pozza di fango
si addormenta.
Un volo di bianchi uccelli
a capofitto dall'alto nido
si ripercuote lungo la costa,
tramonta all'orizzonte. Altri
si staccano, a turno, con larghe ali
dall'acqua.
Portano nomi candidi le barche
appoggiate sul grande litorale.
Passa qualche turista d'inverno,
pochi paesani nei cappotti allacciati,
stretti nei loro pensieri.
In eguale misura stranieri.
FRECCE DI CARTA
La città vecchia e il ragazzo
I
Appena ragazzo muovevo avido
incontro alla città, traversando
il ponente: l'ubriacante corsa
dei tram finiva a Caricamento,
mio porto di terra. Su quella piazza
- con un poco di timore e una stordita smania
di entrare nei vicoli - si apriva desiderio
di capire, essere uomo: ed ero un giovane
che appoggia il capo sulle spalle della madre,
un momento, e poi tenta l'inizio della vita.
II
Disteso al sole che si insinua
negli spazi aperti da edifici
o in bilico su muri scalcinati,
avventurato nelle strade anguste
dove vivere è girotondo e tempesta,
ho navigato su lastre di ardesia,
tra il dislivello dei sassi,
scoprendo quartieri che hanno aria
di lutto insieme al canto di festa.
Avvezzo al sale, all'urlo delle voci,
al ferrigno che viene su dai moli;
sospinto dal vento che a Genova taglia
il viso e urta gli angoli delle case,
gettavo golose occhiate alle movenze
amare delle prostitute e le pietre
della città vecchia cominciavo a numerare.
III
Allora nulla (o poco) sapevo dei primi liguri
scesi a commercio coi Fenici, di antiche
usanze tra la collina di Castello e il mare,
di tempi che noi diciamo felici; di piazze
fortificate o della città grande sull'acqua.
Ma vedevo svettare da lontano la torre
degli Embriaci o Porta Soprana incombere
su piazza Dante ed erano i miei punti cardinali,
segnacoli di forza cittadina; altrove,
davanti alla Cattedrale, sfinge che reca
segni misteriosi, nascevano vaghi
terrori, ricordi di epoche oscure.
Nella piazzetta Doria guardavo la gente muovere
o i ragazzini cacciare nel pallone
come sul palcoscenico di un piccolo
teatro familiare. Spesso
nei portici annosi di Sottoripa portavo
dentro un cartoccio la fame aspra
dell'animale e un odore ficcante di fritture.
IV
In un cerchio di mura pellegrino
vedevo la ricchezza della faccia torva
negli androni bui dei palazzi
e la miseria che dilaga
sulle fronti di grigie abitazioni.
Portato intorno dai miei curiosi assalti
ho capito la gioia delle battaglie,
la pazienza dell'attesa
che accomuna popolo e signori,
l'esistenza minuta che mette alla finestra
fiori e indumenti stesi ad asciugare,
la fatica della giustizia che sale
per scale attorcigliate, la morte degli eroi;
il cammino forte e ansante della storia.
E quanto ferro e fuoco si consuma;
e quanto dura la vita degli uomini
che popolano questa città,
passano nei vicoli e guardano la luna.
Ora che la vita trionfante corre
Ora che la vita trionfante corre
sulle dita, alle labbra sorride,
e so di gettare uno sguardo
più ampio al di là di pareti,
mi chiedo se a questo porto,
quieto e capace, conduceva
la maturità.
Ed era questo il caldo asilo
dei sensi, annunciato negli anni
da mille segni inconsueti? Questo,
ora che bianche giovani mi lasciano
godere di stupendi segreti?
Piazza Colombo
Al centro della piazza (un rombo
regolare) fiorisce una campana
d'acqua: ha un suono discreto
la fontana, come di pioggia.
Spalancata la grande persiana
scura, sporgo il viso: intorno
è ancora tutto deserto, senza vita.
Tu sei dietro di me, dentro
la nostra stanza (nicchia o alveare)
ormai persa nel trucco, sicura.
Come hai potuto, dio o uomo, spento
Come hai potuto, dio o uomo, spento
giacere nel sudario e al terzo giorno
lasciare tutto agli uomini, belve
che non meritano perdono.
Automi pronti a umiliare settanta volte sette
il cuore e l'aria che è intorno.
Come hai potuto lasciarci a un altro giorno?
Necropoli
Cammino dove le tombe si accampano,
da un quartiere all'altro
della morte; pellegrino nel recinto
tra bimbi lasciati a dormire senza più strilli,
ebrei morti nel sonno, gli eroi della città
adagiati a ventaglio nella chiesa,
ogni parte di popolazione nei campi,
Mazzini sepolto in alto, tra i vessilli.
Cosa vado cercando a Staglieno,
turista inconsueto? La povera arte degli statuari
e gli accorati gesti dei marmi?
Una quiete irreale, a pochi passi dalla turbolenza
cittadina, avanzando tra piccole case-sepolcro
disposte nel verde con tristi arredi
o il conforto delle urne davanti
a colombaie polverose, fiorite
come davanzali sotto le campane?
O forse un dialogo da aprire,
prima o poi, con la mia fine,
mentre percorro lunghi corridoi
battendo i piedi
sopra lastre di marmo battezzate.
Ci resta la consapevolezza della violenza
Ci resta la consapevolezza della violenza
di ogni epoca e bandiera,
a cui non possiamo più riparare.
La certezza dei morti assassinati,
dei crocefissi, a cui non possiamo
più dare vita e neppure giustizia.
La conoscenza del dolore, mare senza acqua
in cui siamo sempre pronti a cadere.
La guerra crudele, sempre più crudele,
solco nello stesso solco.
La frana che schiaccia la vita
come i piedi dell'uomo l'erba.
La malattia sottile e sfibrante del sesso.
La disperazione dei giorni senza conquista.
Il lavoro divenuto una ruota che gira.
La ragione stretta ai fucili,
il tradimento e l'infamia.
La menzogna della storia,
la menzogna dell'amore.
La natura calpestata, che si disorienta.
Il male dietro il bene,
la distruzione provocata dalla costruzione;
il pericolo dietro la bellezza, la velocità, l'incanto.
QUALCHE SEGNO
Ciaè
incrocio di case senza vita
spunta, come un cespuglio, tra il versante
arboreo e un ruscello trasparente:
i muri che si sbrecciano e l'antico
selciato, scossi da un'onda, affondano
in un viluppo di erbe selvatiche,
pletorici segni verdi nell'aria;
sopra, nuvole di insetti volteggiano
con disordinati sbalzi nel vuoto
(presenze che, per me, non hanno
nome, né un ruolo giustificato).
Qui, dove riconosco deciso solo
i fili del ragno e il volo
nevrastenico delle farfalle,
sprofondo anch'io, palombaro
troppo ossigenato.
Robivecchi
Guardo il negozio, l'antro dove hai raccolto,
in grande disordine, mobili, cornici tavoli
di buona fattura e gli strumenti da lavoro,
posati sul bancone. E guardo i segni
nel tuo volto, i capelli salepepe,
la bonaria e solida struttura da contadino,
vecchio compagno di scuola, collezionista
di ferite che il tempo ha aperto e provocato;
esperto rabdomante che entri, colto e rapace,
in chiese disperse e antiche abitazioni,
dove il passato si condensa nei frammenti.
Chissà se potrai mai recuperare con le sgorbie
e gli altri oggetti pazienti, gli anni
che abbiamo ormai varcato; oggetti invasi
di crepe e fatiscenti più dei tuoi grovigli
di legno accatastato. Ma troverai di certo
(come ti chiedo) un putto in gesso, per l'arredo
di casa, o qualche vetro lavorato.
Giorgio e il drago
Giorgio era pronto, imminente la battaglia.
Privo d'ogni rifugio (le case, dentro mura
ben protette, ormai alle spalle) avanzava,
la lancia alta sul fianco e lo scudo
a difesa del cuore. Solo e proteso
in mezzo alla radura, fiero brandiva
armi cristiane, tra la sterpaglia.
Il drago si inarcò, mosse contro, vomitando
il fiato. L'unicorno, roteando come un indice
mostruoso, puntava al bersaglio. Infine il corpo
di lugubre sirena scattò, spinto da un delirio,
e la coda batté tre volte il ventre del cavallo,
frustando il cavaliere sulla schiena. Giorgio
vide improvviso uno spiraglio: cacciò
fulmineo il ferro nello spazio aperto
e una larga ferita fiorì sul corpo deforme.
Il drago finì a terra, sanguinante, vinto.
Giorgio era felice, stremato dalla tensione.
Il grande pericolo degli uomini era passato.
Ma, ad un tratto, davanti alla bestia
che si torceva, non fu più sicuro
di sé, della missione.
Il drago aveva poi davvero demeritato?
L. Petronius Philetus Lictor
Gli studiosi sapranno quando la famiglia Barberini
portò il cippo funerario nella grandiosa abitazione,
segnata da potenti contrafforti; se posero il marmo
antico a decoro dei giardini o venne portato là
più tardi, a custodia, da chi riordina la storia.
Anche qui, ora, ogni cosa sembra avere un posto
consacrato; ma insieme sento che niente
ha ragione di memoria e tutto è fermo
come per divieto.
Un rauco uccello nero scampana solitario
sopra la mia testa. L'acqua di una fontana
scende come bava intorno ad una statua
colossale che regge il proprio braccio
spezzato su una gruccia. Tutto si disfa
lentamente. La nera peluria dell'inquinamento,
che copre tenace ogni rilievo, è una sottile
persecuzione contro chi è votato all'ingiuria
per decreto.
CRONACA DI UN PASSAGGIO
ANIMALIA
Il nemico
Una vipera arrotata giace sull'asfalto;
riconosco la serpe. A distanza sicura
sosto ad osservare: è rotta dentro, morente
ma ho paura. Quasi fosse all'estremo
di una molla la testa scatta
in alto, ad intervalli. Guardo,
la scena incanta e non mi piace.
Inchiodata sul grigio della strada
si torce. Ecco un dolore muto, penso,
che non si sente. Non posso né aiutarla
né ucciderla. Resto fermo a lungo;
non so che fare. Apre la bocca,
lancia morsi nell'aria per colpire
o forse tenta solo di respirare, spera di vivere.
L'ospite
Ritorno verso sera a cala Granu
dove ogni giorno si scende, tra rovi
e bassi cespugli, per il bagno. Sono solo.
Attendo di vedere l'animale
già avvistato, se mai avrò fortuna.
E presto ricompare. Alla stessa ora. Fila
da un capo all'altro della piccola cala,
come su noto sentiero. Da brevi
immersioni è scandito il nuoto leggero,
allegro. Sono commosso. Il mio ospite
oggi è un cormorano.
Uomo di città,
poco avvezzo a riconoscerti in natura,
è vano domandare se è miracolo;
chiedersi perché vivere così è così raro.
Acqua dolce
Guizza il pesce nell'acqua, sfiorando le pietre
di un gelido botro, minuscolo oceano. Con lieve
remeggio di pinne, ogni tanto, riaffiora; disegna
cerchi allo specchio. La sua vita è appena un soffio,
un mite silenzioso richiamo. E io non saprò mai dove
giunge la sua sapienza. Lui interpreta ignaro
una storia effimera, elusiva, che vorrei meglio
capire. Intanto guardo, partecipo. Amo.
Dell'incontro con un balestruccio
I
Nella vecchia casa di via San Luigi, a Sestri, fui primo
ad accorgermi di uno strano tramestio. Dal cielo caduto
dentro la finestra, spalancata al sole d'estate,
un balestruccio era atterrato nella stanza del nonno.
Aveva sbagliato il calcolo delle volute nell'aria, forse
tradito da un momento di ebbrezza. Intristito guardavo
il pennuto tentare il volo con salti incerti sul pavimento;
spaventato sbattere nei mobili con colpi violenti,
dannosi per una fragile delicata viva architettura.
La prima volta vedevo un essere tanto inerme e, insieme,
così sicuro della propria dignità. Una bellezza pure.
II
Allora ero un bambino (da poco era finita la guerra)
e quella freccia nera aveva già lasciato un segno.
Ora so che fu un dramma pari ad ogni altro, una grande
eroica sofferenza. E sono lieto di non stilare, da tempo,
graduatorie tra i mali: di non consentire classifiche
tra l'uomo e gli animali. Convinto, orgoglioso di non fare
differenza.
Cronaca di un passaggio
In una giornata dolce e quieta e senza vento, senza dolore,
non ero il solo a guardare sbalordito. Nel centro storico,
condotto al passo, ecco, a sorpresa, sbucare un cavallino:
privo di fornimento, legato a un laccio cui erano state
attaccate le mani di ghiaccio di un giovinastro cavallaro.
Scese lo sdrucciolo che s'incurva presso il larghetto
di San Donato e dietro il coltello di casa Bassi subito
disparve. Bello, più nero dell'ardesia che lavorava Angelo,
al mio fianco, nella sua bottega. "Passa di tutto..." mi disse
amaro lo scultore amico. Era di una eleganza primitiva;
docile e già fiero mi parve, nella sequenza fuggitiva:
Non so se proseguì lungo il nastro lubrìco dei Giustiniani
o si diresse, con uno scarto, nell'altro vico: la salita,
di continuo battuta e scalpicciata, che porta al Caffé
degli Specchi e dentro la piazzetta, dove un'edicola votiva
divalla da una parete come trippa al gancio calcinata.
Per attimi rimase nell'aria, quasi allegro, il battito
degli zoccoli sul selciato del puledro; il tamburo musicale
finì presto, assorbito nelle oscure budella di Genova irreale.
Ma il ricordo del passaggio straordinario ogni tanto ritorna:
allora, sbalzo di pietra nera sul muro di pietra grigia,
netta è la figura perfetta, che poi, di colpo, s'adombra.
Qual era la stazione di posta del piccolo, l'ultima sosta:
il suo confine? Forse nel fondo della ventraia polverosa
delle viuzze ai macelli di Soziglia, ove travi consumate
dalle palme unte del tempo paiono incroci di ossa macellate
e folti fregi trovi scolpiti (crani ingialliti e dissepolti)
su edifici che tremano d'orrore nell'eterna penombra.
La guida
Quando dovrò avviarmi lungo la strada
bianca che conduce ove non esiste tempo,
nulla muove e il silenzio è vacuo
e doloroso non desidero affrontare
il viaggio teso come soldato al fronte.
E non voglio essere solo. Cercherò, in cima
all'elenco dei più idonei, una guida sicura,
una calda serena compagnia. Protetto
da istinti e fiuto, chi sia pronto a seguire
ogni traccia al fine dell'orientamento:
per andare dove non sai e mai sei stato prima.
Senza tremore per l'abbandono di una vita,
procedere con larga intesa, legati nell'aria
da un intreccio di gesti, occhiate e movimenti
conseguenti, accorti; ansare per le corse
e un generoso andirivieni; non per il dolore.
Sarà un cane. Psicopompo si diceva ab antiquo;
ma io lo girerei, nomignolo vezzoso, al mio
fedele amico (senza pretese, nonostante la serietà
della funzione). Sarà un cane, semplicemente:
allegro, vivo, con il pelo arruffato e la lingua
penzolone; fuori dal mito. Basterà avere al fianco
un terranova, un cane da montagna o un bolognese.
ARCHIVIO
Bolondi Alfeo
Sei stato a lungo, ai miei occhi di bambino,
un antico cavaliere, semplice e fiero. La tuta
da lavoro indossata come una domestica armatura,
salivi sul grande autocarro rosso (una mezza
palazzina) che trasportava, tutto in una volta,
quantità enormi di benzina e di prodotti Esso.
Io, dietro, su una montagna di metallo arrampicato
per raggiungere in alto la cabina. Dopo avere
consultato le tue carte oleose partivi seguendo
la pista: la rete di distribuzione del prezioso
carburante. Lassù, vicino al posto di guida,
dominavo la terra, moltiplicavo i chilometri.
Capo di una carovana. Erano viaggi misteriosi,
mai dimenticati, perduti. In cima a un elefante.
Adriano
In fila nel corteo che ti accompagna
verso l'ultimo scalo, con la mente
ritorno ad un memorabile volo.
Eri ai comandi. Si navigava in un cielo
sereno, con nubi bianche sparse
come isole nell'aria, sopra la verde
pianura di Francia; veloci
puntando su Le Bourget, nostra destinazione.
All'improvviso il radar divenne cieco.
Mi accorsi anch'io di uno schermo spento,
percorso prima da una luce verde
in rotazione. Quante imprecazioni,
che rabbia, Adriano, nella tua voce...
Andasti avanti così, quasi veleggiando
tra nubi e azzurro, e ci hai portato
in salvo, sulla pista di Parigi.
Chissà se avrai da lottare, ora,
con qualche guasto meccanico. Se,
in questo tuo trasferimento solitario,
un'altra volta ancora, dovrai volare a vista.
Pueri, puer
Potermi aprire in un sorriso, pueri, figli
nati sotto il dominio del caso; rassicurarvi
con un gesto chiaro: un segnale di fiducia
nella vita. Malauguratamente (o forse erra
dal vero, mirando all'altrui sorte,
il mio pensiero) credo che la natura
sia matrigna. Sicuro che la sorte dell'uomo,
alla lunga, non sarà delle migliori.
Meglio allora scendere, con voi, nel rifugio.
Scegliere l'ignoranza del futuro. Dilatare
l'esperienza lungo i giorni, nei minuti.
Da tutte le speculazioni restar fuori.
Con gli occhi spalancati,
innanzi al vecchio che ti racconta
il sonno con l'aiuto di una tiritera
(ochebelcastellomarcondirondirondello...)
trattenere, nell'attimo che da solo s'incornicia,
la rara felicità senza coscienza.
E intenerirsi, come tu fai, puer,
in alto cercando, tra le mura domestiche,
una modesta casalinga trascendenza.
La Vetta
Si chiamava la Vetta ed era in cima
alla salita; in cima ai miei pensieri
la donna che portavo in trattoria.
Piatti e tovaglie bianche; il vino
rosso e la treccia di pane. Su questo tavolo
avvenivano le mosse, si giocava la partita.
Prima di assaporare le portate, per essere
più libero, sfilavo l'orologio da polso; lei
posava una coppia di orecchini tra i bicchieri.
Tutto era un rito, una piccola favola;
una cerimonia, consumata in poche ore.
Durante il pranzo il desiderio d'amore
veniva quasi servito a tavola.
VIAGGIO IN ITALIA
Vicolo Bonini
I
Era un evento che si ripeteva, da un anno
al successivo. Siglato da due cerimonie
costanti; l'arrivo e la partenza. Per il resto
giorni senza voci squillanti, ripetuti.
Smossi solo da giovani stupori e svaghi,
quelli onnipotenti offerti dalla fantasia.
Vacanze immaginate. E una città, Reggio Emilia,
intorno: appena oltre i battenti del portone
(la prima, tra le tante da me, poi, esplorate).
II
Era un bambino che mi sforzo di recuperare
alla memoria. Riconoscere. Restava in una buia
abitazione, pianoterra, con finestre, socchiuse
come ciglia, che guardavano il selciato di via
del Pozzo. Una casa grigia, sorda, polverosa.
La cucina, grande e vuota, aveva due scalini
per salire al davanzale e l'uscio in legno
scuro che si apriva facilmente e dava
la spinta per uscire su vicolo Bonini
(per consentirmi, ogni tanto, di fuggire).
Il più antico governo
La cerchia tonda delle mura
(un gigantesco anello) serra
l'antico borgo. Possenti torri
quadre vigilano i fianchi glabri
del monte. Due sole porte
consentono il varco dall'esterno.
Avamposto contro Firenze (quando,
tra città e città, si pensava
alla guerra) il paese era ben guardato,
cinto. Gli abitanti vivevano sicuri.
Inermi solo davanti al tempo,
che corrompe anche chi sta chiuso
all'interno di un solido, inespugnabile
vallo. Sudditi del più antico governo.