Se
glielo dici, si schermisce. Eppure Al Kooper è veramente
una leggenda. Non fosse che per l'organo Hammond di Like A
Rolling Stone di Bob Dylan, il brano che nel 1965 cambiò
le coordinate sonore del rock. Con Dylan Al Kooper ha collaborato
spesso, ma la sua attività di ragazzo prodigio
- organista, pianista e produttore, ha cominciato a suonare
appenatredicenne nel '57 - ha avuto una vera e propria esplosione
negli anni '60, prima con i Blues Project, poi con i Blood, Sweat
& Tears e il progetto Super Session (con Mike Bloomfield e
Stephen Stills). Quest'ultimo disco, ristampato nel 2003 con
l'aggiunta di qualche inedito, è forse quello che
rappresenta meglio il suo stile segnato dal blues. Kooper ha
collaborato fra gli altri con i Rolling Stones, Jimi Hendrix,
Harry Nilsson e ha prodotto gli album d'esordio dei Lynyrd Synyrd
e dei Tubes. Non possiamo ricordare qui tutte le sue avventure,
ma ci ha fatto piacere ritrovarlo in gran forma, nonostante un
filo di amarezza qua e là tra le sue parole. Al Kooper ha
suonato ieri a Forlì e sarà domani 1° maggio al
Teatro Gentile di Cittanova, Reggio Calabria.
Cosa
sta facendo in questi ultimi tempi?
Sto
suonando soprattutto dal vivo. L'anno scorso sono riuscito a
pubblicare un disco, Black Coffee, dopo un lungo silenzio
e ora ne ho cominciato un altro.
Con
il mutare dei tempi e con l'affermarsi di un suono sempre più
commerciale non dev'essere stato facile trovare un'etichetta
discografica.
Lo
è stato, ma ho avuto anche fortuna perché la
persona che gestisce l'etichetta con cui è uscito Black
Coffee è un altro musicista. Si è trattato
della collaborazione tra due musicisti.
Come
definirebbe la musica che sta facendo?
La
stessa che ho sempre fatto. Faccio quello che faccio e cerco di
migliorare con il passare del tempo. Non mi sono avventurato in
qualcosa che non ho già fatto.
È
riuscito a raggiungere anche un pubblico nuovo?
Non
è una cosa che devo fare io. Io faccio le mie cose, le
lancio e chi le prende, le prende. Non posso fare nulla per
agganciare un pubblico nuovo. Quest'ultimo dovrebbe essere
interessato alla musica del passato.
Come
ci si sente ad essere una leggenda del rock?
Non
penso a me stesso come a una leggenda. Vorrei che mi pagassero di
più per suonare la mia musica, così potrei stare in
posti migliori e viaggiare in aereo in condizioni migliori. Non
mi sento per niente una leggenda.
Tra
i tanti dischi che ha fatto ce n'è qualcuno che ama in
modo particolare?
Quando
ho finito un disco non lo riascolto più, così non
ho particolari preferenze. Di solito passano dieci o quindici
anni prima che io riascolti uno dei miei dischi. E tutto quello
che sento alla fine sono gli errori. Non è un'esperienza
piacevole e di solito non lo faccio. Sono gli altri a farmeli
risentire.
Questo
vuol dire che non le va di essere coinvolto nelle ristampe?
Quella di «Super Session», per esempio, è
molto bella.
Sono
molto interessato alle ristampe. Mi permettono di migliorare il
suono dei vecchi dischi con la nuova tecnologia. La nuova
edizione di Super Session suona meglio di come abbia mai
fatto in passato.
È
vero che nella famosa session di Dylan per «Like A Rolling
Stone» lei era stato chiamato per suonare la chitarra?
Ero
un ospite. Dovevo soltanto fare una visita allo studio e vedere
le session. Non ero stato ingaggiato per suonare. È stato
un incendio spontaneo.
È
difficile suonare con Dylan?
Abbiamo
un'alchimia molto buona quando suoniamo ed è molto
divertente farlo. Quando capita è sempre molto piacevole.
Lo
ha sentito di recente?
Adesso
saranno passati un paio d'anni, ma ogni tanto ci sentiamo. Se mi
chiamasse domani, ricominceremmo a parlare come sempre.
A
proposito degli artisti difficili con cui lei ha collaborato,
cosa ci può dire di Harry Nilsson? Aveva una voce
fantastica, ma non amava cantare dal vivo.
Era
un artista incredibile. Ma non sopportava le stanze d'albergo e
gli aerei. Devi essere molto motivato, in questo mestiere, perché
quando sei in tour soltanto un paio delle 24 ore di una giornata
sono piacevoli. Devi soffrire 22 ore per stare bene soltanto per
due. Non è un equilibrio matematico. L'unica persona che
capiva veramente questa cosa era Bill Graham (uno dei primi
grandi organizzatori e manager della storia del rock, n.d.r.).
Lui riusciva a mettere gli artisti a loro agio. Se suonavi per
lui stavi in un bell'albergo, i camerini erano accoglienti, il
cibo era ottimo. Lui capiva perfettamente che se sei felice,
suoni meglio. Ma questa cosa è morta con lui. La gente
adesso pensa solo a fare soldi e non si preoccupa dello stato
d'animo di chi suona.
Intervista di Giancarlo Susanna
L'UNITA' 30/04/2006
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