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AMARTYA SEN


La guerra è una trappola. Scegliamo la convivenza

La vita è un cammino simbolico, scandito da una incessante crescita interiore. La ricerca di sé è anche ricerca di Dio. Un “dio delle piccole cose” deve vivere in ogni persona, orientale od occidentale, cattolica o musulmana che sia. Con un duplice obiettivo: cercare la convivenza e il rispetto reciproco. Ecco perché non esiste uno scontro di civiltà. “La teoria di Huntington è interessante ma limitante. Esistono spiegazioni molto complesse ed io, come matematico – sostiene Amartya Sen – non credo alle spiegazioni semplici”. Piuttosto, e uno scontro fra poteri forti. In mezzo, ci siamo noi: gli uomini. Comparse di un teatrino che è la vita, con un copione da recitare a memoria o a braccio. Sta a noi la scelta. Ma solo chi è cresciuto interiormente, può farsi sapiente giardiniere della vita e coltivare il giardino della propria coscienza. Solo così si può meritare la pace.

Quest'uomo che sa incantarti con la dolcezza dei versi della poesia indiana e con il rigore della scuola economica anglosassone, si chiama Amartya Sen. Indiano del Bengala, teorico del superamento del sottosviluppo, premio Nobel per l'economia nel 1998 grazie ai suoi studi sul welfare, attuale rettore del Trinity College di Cambridge. Si guarda intorno stupito. Lo aspetto da quindici minuti nella hall del Danieli di Venezia per un incontro. Ma lui, da quindici minuti, ammira l'eleganza del salotto, sbircia dalle vetrate la laguna, abbozza un sorriso. Confessa: “Vedo un tentativo dell'America di consolidare la sua egemonia sul pianeta, ma non si può neanche dimenticare il ruolo giocato, nella crisi con l'Iraq, dalle emozioni fortissime suscitate negli Usa dall'attacco terroristico dell'11 settembre.” Ma non per questo, Sen, si lascia contagiare dalla sindrome della guerra necessaria. Spiega: “Sono cresciuto alla scuola di Rabindranath Tagore, premio nobel per la poesia nel 1913. Mio nonno insegnava Sanscrito nella stessa scuola. Lì ho imparato il valore universale di una parola: pace. E dalla convivenza fra culture e genti diverse: dall'Islam al Cattolicesimo, da Calcutta a Venezia passando per New York. Tagore ci parlava di un mondo che dialogava a dispetto delle distanze e delle diversità”. Adesso il professore si siede. Beve una tazza di tè verde. Invitato alla Fondazione Giorgio Cini per celebrare i vent'anni della Scuola Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, Sen ha parlato dell'idea d'identità nell'ambito di un seminario dedicato all'irrealtà quotidiana.

Professore, cosa significa l'idea di identità?

Io penso che tutti noi siamo membri di diversi gruppi. Lei fa il giornalista, io l'economista, lui il cameriere. Bene. Lei può essere vegetariano, io no, il terzo entrambi le cose. Ma è importante, seppure nella diversità, decidere a quale identità apparteniamo tutti e tre. Ognuno può vivere nella propria ma con un obbligo: rispettare le altre. Ecco. Indiani, musulmani, cristiani, buddisti devono coltivare la propria identità ma nello stesso tempo, devono rispettare le altre, con la stessa intensità con la quale seguono il proprio cammino. Oggi, purtroppo, assisto alla negazione dell'identità. Si cerca d'imporre l'identità unica: così si riduce la molteplicità dell'individuo e si uccide la libertà. Ai giorni nostri, basta essere arabo per essere bollato a sangue: colpevole. Invece abbiamo storici, matematici, poeti arabi che hanno fatto moltissimo per l'Occidente e la sua cultura. Pensi alle traduzioni di Gherardo da Cremona, nel dodicesimo secolo fatte proprio dagli arabi. Per questo, sono convinto che la relazione tra civiltà diverse non si possa esprimere attraverso l'idea dello scontro ma attraverso l'idea dell'incontro.

Nell'edizione aggiornata del saggio a quattro mani con Bernard Williams (“Utilitarismo e oltre”, Il Saggiatore) lei affronta in maniera diretta il rapporto giustizia-benessere-diritti nell'era del mercato globale. In tale contesto, può spiegare il concetto di utilitarismo?

Per poter rispondere alla sua domanda, è necessaria un'analisi multifattoriale. Le spiego. La nozione di razionalità pubblica, da applicare alla globalizzazione, in quanto diretta ad una società complessa, moderna e aperta, richiede plausibilmente regole generali e spiegabili secondo modalità di cui la razionalità personale in sé non ha bisogno. Nel caso pubblico, tuttavia, c'è una questione differente e prioritaria: se, cioè, vi debba proprio essere qualche agente supremo. Solo le teorie più primitive della sovranità devono assumere, come una necessità concettuale dello stato, la presenza di un tale centro decisionale. L'esistenza di uno stato è compatibile con un livello di decentralizzazione, il quale implica che nessuna agenzia occupi il ruolo che il sé occupa nella decisione personale. Ecco perché l'utilitarismo, nei suoi aspetti centrali, suggerisce una scelta di azioni sulla base delle conseguenze e una valutazione delle conseguenze in termini di benessere.

Professore, il potere della “sacra Trinità” – Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto) – fonda la sua egemonia su politiche economiche esclusiviste. Quali strumenti possiedono i Paesi del Sud del mondo per ottenere finalmente riconoscimento e legittimazione?

Non vi è dubbio che queste istituzioni siano ormai da cambiare. Per più motivi e perché rappresentano, seppure con pesi diversi, lo stesso potere. L'architettura economica mondiale va riformata in tempi brevi, con equità e giustizia. L'attuale situazione è preoccupante ma lascia anche ben sperare per il futuro. Da un lato, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale per il Commercio poggiano la loro attività, a più livelli, sulla posizione del Paese più forte: gli Stati Uniti. Dall'altro, noto che, nonostante la ferrea architettura che governa l'economia globale, la Banca Mondiale, gradualmente, sta passando da posizioni rigide a posizioni meno rigide. Noto un atteggiamento mutato, d'attenzione, rispetto a tutti i temi messi in campo dai movimenti new-global. E' un segnale importante, da non sottovalutare, anche nell'ottica dei Paesi del Sud del mondo. Del resto, se il mio amico James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale, ha dichiarato che considera prioritaria l'eliminazione della povertà in Africa, beh, evidentemente, qualcosa è cambiato nelle vecchie relazioni politiche ed economiche. Le faccio un esempio che mi riguarda personalmente. Lo stesso presidente della Banca Mondiale, di recente, mi ha chiesto di aiutare, come intellettuale, il nuovo presidente operaio del Brasile, Lula da Silva, pur conoscendo l'amicizia che da anni mi lega in Brasile a Cardoso, un grande scienziato. Penso che le idee di Lula siano importanti non solo per il Brasile e l'America Latina ma per tutto il mondo.

Johan Galtung, professore di Studi sulla pace all'Università delle Hawaii e premio Nobel “alternativo” per i diritti umani, già il 25 maggio del 2002, in un'intervista al “Washington Post” sostiene che “prima la guerra degli stati Uniti contro l'Afghanistan e adesso la minaccia di un nuovo conflitto contro Saddam Hussein, si spiegano come la strategia statunitense di controllare l'Asia centrale, una zona nevralgica nel flusso mondiale del petrolio”. Condivide questa analisi?

In questo momento, mi creda, è davvero azzardato sposare sia la tesi del conflitto che quella del non-conflitto. Oggi, con una situazione in costante evoluzione, affermare che gli Stati Uniti scendano in guerra contro l'Iraq, mi pare una risposta forzata. Quello che penso a tal proposito, invece, è il frutto di una riflessione che da tempo elaboro su altri conflitti nel mondo. Prenda il caso del Rwanda e della guerra fratricida tra Hutu e Tutsi. Fino ad oggi ha causato migliaia e migliaia di morti. Rifletta sulla logica che ispira questo conflitto, sulle dinamiche che lo caratterizzano. Insomma, per anni, le opposte fazioni, hanno inculcato nelle menti dei loro uomini, delle loro donne e dei loro figli, un imperativo categorico: “Tu sei Hutu, quindi devi odiare e uccidere i Tutsi. E viceversa”. Io vedo lo stesso pericolo nella minaccia di conflitto Usa-Iraq: da entrambi i lati, anche se con tecniche e momenti diversi, comunque si fomenta all'idea della guerra. Anche l'Europa rischia di cadere in questa trappola. Questa situazione danneggia l'umanità intera. Semplificare, discriminare e reclutare: questo fanno i diversi fondamentalismi. Ecco perché io continuo a coltivare l'idea d'identità: l'identità della convivenza dentro l'irrealtà quotidiana. Adesso la saluto. Ho voglia di una tazza di tè e di una passeggiata per Venezia.

Intervista di Massimiliano Melilli – L'UNITA' – 31/01/2003



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