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CINEMA

I bambini si guardano

Io non ho paura è il terzo film a essere tratto da un romanzo di Niccolò Ammaniti. Gli altri due, Branchie e L'ultimo capodanno, hanno figurato tra i peggiori flop, se non disastri, della recente storia del cinema italiano. Branchie aveva come protagonista Gianluca Grignani. L'ultimo capodanno, per la regia di marco Risi, aveva scatenato, come qualcuno ricorderà, una campagna di feroce denigrazione: il film fu affossato anzitempo e di fatto non ebbe una distribuzione regolare. Insomma il talentoso scrittore romano, benché di penna felice e di idee ricche, non riusciva ad avere fortuna sul versante cinematografico. Questo fino a ieri, perché oggi è il momento di Io non ho paura e le cose promettono di cambiare.

I motivi sono presto detti: il breve romanzo, Io non ho paura, è molto bello (decisamente superiore ai due succitati per toni e temi); affronta un immaginario inconsueto, reso con vivida emozione cinematografica (nasce, infatti, come soggetto per un film); l'adattamento per il grande schermo è curato dallo stesso Ammaniti; la regia è stata affidata a Gabriele Salvatores. Il risultato è felice. Esempio raro di una fruttuosa collaborazione tra uno scrittore giovane, acuto e intelligente, e un regista maturo, qui più che mai ispirato, che è stato in grado di rendere quel mondo in modo netto e naturale, senza concessioni alla commedia, né al grottesco, ma con giusta dose di realismo mitico.

In questa intervista Ammaniti ci racconta la genesi del libro, l'impostazione del film e dà un suo parere sul cinema italiano. Il libro, come il film, fa dell'ambientazione, colline distese di grano giallo, elemento e contesto determinante. Non sembra di essere in Italia. “Ho scoperto questi luoghi facendo la strada in macchina per andare in Puglia. Dopo Caserta, superato l'Appennino, si incontra una zona dell'entroterra che nel periodo estivo è completamente coperta di grano. Non ci sono alberi, luoghi d'ombra, non c'è niente, solo onde di grano. E' un luogo surreale, non sembra un tipico paesaggio italiano. Incuriosito, sono uscito dall'autostrada e l'ho visitato. Guardando queste distese senza niente e con poche case sparse ho immaginato cosa potessero fare vent'anni fa le famiglie che ci vivevano. Mi sono chiesto che cosa avrebbero fatto dei bambini in quel posto durante le vacanze: tutto e niente. E così è nata la storia: dalla fascinazione per un luogo e dalla mia fantasia. Mi piaceva l'idea di un posto d'estate di campagna, dove si potevano trovare dei bambini che di giorno come animali diurni e di notte sognavano, mentre i contadini andavano a tagliare il grano sfuggendo all'opprimente calura. Un luogo così, nell'immaginazione di un bambino, si trasforma e si popola di “mostri” finti e reali. La storia ha come sfondo la fine degli anni Settanta e il rapimento di un ragazzino del nord tenuto prigioniero in questi luoghi “fatati”. E' una storia sull'infanzia che scopre il mondo degli adulti, sulla paura e sul nostro paese. Alla fine degli anni Settanta io avevo più o meno l'età dei protagonisti della storia. E ricordo benissimo lo stato di paura che si viveva in quel periodo. Da una parte il terrorismo delle brigate rossa, dall'altra il fenomeno dei rapimenti. Nel '78 ne furono compiuti circa 600. Una vera e propria industria. Ho immaginato, quindi, che all'epoca, prima della legge che bloccava i beni dei familiari, per alcuni il rapimento potesse risultare un facile guadagno. Quello che mi colpiva era quando venivano presi bambini. Come reagisce un bambino a un rapimento se non sa che cose è un rapimento? Deve inventare con la fantasia e una giustificazione a quello che gli accade”.

Come ha interpretato Salvatores il mondo che hai creato?

Salvatores ha reso la storia in modo realistico, ha raccontato con semplicità quello che avviene. Sta sempre dal lato dei bambini, in questo ha dato corso a una volontà espressa nella sceneggiatura. E' stato molto bravo, inoltre, a cogliere il rapporto tra la natura e i bambini: è come se facessero parte di un'ecosistema più grande. Ci sono gli uccelli, i ragni, le lucertole, le formiche...e loro che corrono e scoprono il mondo. Questo è l'aspetto più poetico del film. La parte, invece, onirica e surreale, presente nel libro l'abbiamo volutamente accantonata. Potevamo ricorrere a degli effetti speciali per rendere le colline in movimento e con gli occhi, come fossero viventi, ma abbiamo preferito un taglio naturalistico.

Io non ho paura” non sembra propriamente un film italiano. Parla della paura, dei bambini, degli anni Settanta, di adulti corrotti, di famiglie di contadini...In quale cinema ti identifichi e da quale ti senti distante?

Mi hanno colpito i film di alcuni giovani registi: penso ai bambini di Crialese a Lampedusa, ai pescatori di Marra, agli emarginati di Sorrentino. Sono storie semplici che recuperavano la marginalità, la necessità di sopravvivere, di resistere, di rimanere uomini in situazioni difficili. L'unico limite, secondo me, è che gli autori quando arrivano a un nocciolo, a un monumento duro si sottraggono. Si fermano un attimo prima come se scattasse una sorta di pudore, forse culturale. In questi casi io penso, ad esempio, a La pianista in cui Michael Haneke va fino in fondo senza paura, anche se quello che racconta è veramente paurosa. Non mi interessa invece quel cinema che chiede una identificazione con i valori e i problemi della famiglia borghese. La borghesia italiana, oggi, non ha granché da dire.

Ti riferisci per caso ai film di Muccino e Ozpetek, e altri simili?

Non ce l'ho con Muccino, è anche bravo a girare. E' un problema di adesione ai personaggi: io posso aderire all'Uomo Ragno, perché è un personaggio in cui vorresti identificarti (tutti i ragazzini vorrebbero farlo). E' un personaggio che apre le porte dell'immaginario, muove delle cose. Invece un cinquantenne sposato con figli che vorrebbe scrivere un romanzo e amare un'altra donna...ecco sono situazioni che conosco, che sento, ma in queste storie non scatta niente di più. Pensa a Magnolia e ad American Beauty: aprono la stessa porta che apre l'Uomo Ragno, ossia la follia. Partono da situazioni riconoscibili e arrivano a qualcosa di più grande, in questo caso la follia. Questo li rende dei grandi personaggi. Nel cinema italiano manca la follia, anche per i giovani registi che si fermano un attimo prima.

Intervista di Dario Zonta – L'UNITA' -11/03/2003

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