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Alessandro Marzo Magno
Diario del 1998

L’artista venuto dal nulla
Una famiglia di nome Warhola, più nota come Warhol
Anno 1999, numero 15



Piove in Rutenia. Piove nel museo Andy Warhol, di Medzilaborce.
L’acqua sgocciola dal soffitto vicino alle sedie elettriche raffigurate nei quadri della serie American Death.
Sgocciola dal soffitto di quella che era stata la realsocialista casa della cultura in questo remoto angolo di Slovacchia, molto più vicino ai confini con la Polonia e l’Ucraina che non alla capitale Bratislava.
Sgocciola sul pavimento di legno, riparato alla bell’e meglio da un telo di nylon da imballaggi.
Qua dentro, fino a nove anni fa, si cantavano le lodi e le glorie del proletariato mondiale.
Ora si ammirano le opere di un artista che quei comunisti non avrebbero potuto che definire depravato, lontano com’era dai canoni estetici del realismo socialista (e infatti i duri e puri del comunismo cecoslovacco promossero una raccolta di firme nel 1991 per cercare di impedire l’apertura del museo e «tener fuori gli omosessuali americani». Anche in questo caso, la Storia li travolse). E magari definirlo anche servo del capitalismo. Non dipingeva forse barattoloni di zuppa Campbell’s? Per la verità, non lontano dalla zuppa, ci sono anche un ritratto di Lenin in rosso e due falci e martello, sempre su fondo rosso. Lavori che, si può star certi, il pubblico locale apprezza molto meno della zuppa suddetta, ma che proprio per il loro significato storico (anche se l’artista non ha mai manifestato particolari simpatie politiche né per la destra, né per la sinistra) la Fondazione Andy Warhol, di New York, ha scelto di esporre a Medzilaborce.
Sì, fanno davvero uno strano effetto le riproduzioni in cemento dei barattoloni di Campbell’s che presidiano l’entrata del museo, poste quasi in una sorta di contrasto epocale proprio di fronte alla mole imponente della chiesa dello Spirito Santo, un tempio ruteno che sembra uno strano incrocio tra una torta nuziale e un albero di Natale.
Il museo è stato un’invenzione di John Warhola, fratello di Andy e vicepresidente della Fondazione.
Durante la sua prima visita nei luoghi d’origine della sua famiglia, conobbe un giovane insegnante d’arte, Michael Bycko, che lo convinse a esporre delle opere del defunto fratello in questo sperduto angolo di Slovacchia.
Alcune gallerie si erano rifiutate di mostrare opere di Andy prestate dalla Fondazione di New York (sembra di vedere le facce di questi direttori formatisi con i rigidi canoni estetici realsocialisti di fronte ai quadri «depravati» di Warhol), ma questo spronò Bycko, anziché demoralizzarlo.
John si innamorò dell’idea e i soldi della Fondazione fecero il resto. Ora sono esposti 23 originali e 19 copie. In ottobre il ministero della Cultura slovacco ha acquistato altri 10 originali, copie con firma autografa della serie Ladies and Gentlemen. Vengono da una collezione tedesca.
Alla gente di qua, del museo più di tanto non è mai interessato. Anzi, all’inizio proprio non ne voleva sapere.
Nel Kulturny Dom, infatti, non si tenevano solo gli incontri ufficiali con falci, martelli e inni gracchiati dagli altoparlanti.
C’erano anche un cinema, un ristorante, una grande sala dove si ballava in occasione delle feste, fossero esse folcloristiche, di nozze, di compleanno.
Figurarsi quindi se volevano dare il tutto in mano a uno sconosciuto americano che diceva di essere fratello di un tale che quasi nessuno aveva mai sentito nominare. E poi perché? Per fare un museo?
Le visite nei musei, fino a qualche tempo prima, erano un atto politico, un dovere da compiere in nome del sapere comunista. Ora che i tempi erano cambiati, nei musei nessuno aveva la benché minima intenzione di andarci.
E infatti la gente di Medzilaborce nel museo non ci va: è sempre visto come un corpo estraneo, come un qualcosa che ha preso il posto del ristorante e del cinema.
Che ci sia un tanto di sbagliato nel rapporto tra il museo e la città che lo ospita è evidente anche dalle parole di Peter Fecura, il direttore, che parlando della vecchia casa della cultura si premura di far sapere che era una specie di guscio vuoto.
«Non c’era niente», dice. Per sapere delle feste, del cinema, del ristorante, bisogna leggere lo speciale di tre pagine che la Neue Zürcher Zeitung ha dedicato a Warhol e al suo museo slovacco.
Museo che, d’altra parte, si è rivelato un’impresa economicamente fallimentare.
Non ci sono soldi per stampare un catalogo, rinnovare l’esposizione, riparare il tetto e tantomeno per mettere in piedi una campagna promozionale che attiri un po’ di visitatori. Senza i quattrini del ministero della Cultura di Bratislava e della Fondazione Warhol di New York, quello che ufficialmente è chiamato «Museo d’arte moderna della famiglia Warhol» sarebbe stato costretto a chiudere già da un bel po’. E non si sa ancora quanto a lungo continueranno ad arrivare i fondi da oltreoceano.
John è ormai anziano e da quando sua moglie è stata male, i suoi viaggi si sono diradati.
Non si direbbe inoltre che la gloria di casa attiri più di tanto gli slovacchi.
Secondo quanto dichiarato dal direttore Fecura, sui 20 mila che nel 1995 (scesi a 15 mila nel 1997) hanno varcato la soglia del Muzeum moderneho umenia Andy Warhola, gli slovacchi erano solo un migliaio; gli stranieri 19 mila.
Scorrendo però le firme apposte sul libro dei visitatori, le firme degli slovacchi, soprattutto scolaresche, sovrastano di gran lunga quelle degli stranieri, in massima parte americani.
Un’altra eredità della disinformazia dei tempi realsocialisti?
«Io vengo dal nulla», diceva Andy Warhol, interrogato sulle sue origini.
E in effetti, anche se lui queste zone non le aveva mai viste, non devono essere molto lontane dal concetto di nulla che può avere un abitante di una grande città.
Medzilaborce ha 6.500 abitanti.
Ciò che salta agli occhi sono dei mucchi neri di carbone che accolgono i pellegrini dell’arte (non esiste altro motivo per visitare la zona, anche se le carte turistiche segnano qualche impianto di risalita sulle pendici dei Carpazi) all’ingresso della città, molto poco ecologicamente disposti vicino all’alveo di un torrente.
Medzilaborce, pur trovandosi ai piedi dei Carpazi, ha sempre vissuto di industrie, ci sono ancora due grandi fabbriche, praticamente in centro: una davanti e una dietro alla chiesa. Una ha un aspetto dimesso e decadente, l’altra è tutta tirata a lustro: sono stati i tedeschi che l’hanno rilevata per produrvi componenti di macchine tessili che poi vengono assemblate vicino ad Amburgo. Da queste parti il socialismo reale non sembra un relitto del passato: la gente vive in grandi cubi di cemento un tempo bianchi, ora piuttosto sporchi e scrostati.
I negozi danno l’idea che la società dei consumi non sia ancora arrivata in zona: la frutta e la verdura hanno un aspetto poco invitante, i detersivi si vendono in una specie di prefabbricato. Parcheggiate nei piazzali ci sono ancora le auto un tempo orgoglio della produzione est europea: Wartburg, Lada e persino molte bizzarre Trabant. I macinini lenti e puzzolenti che andavano a miscela furono il primo simbolo comunista a essere letteralmente gettato nella spazzatura in altre zone dell’ex Oltrecortina. Qui, invece, le Trabi sono decisamente più numerose delle auto occidentali, evidentemente appannaggio di una classe di nuovi ricchi che non ha trovato nei Carpazi e dintorni traffici leciti e non che abbiano potuto arricchire, come è accaduto altrove, la nuova borghesia rampante dell’ex mondo comunista.
Il cognome originario della famiglia era Varchola, piuttosto diffuso anche oggi, tanto che nel villaggio da cui prima papà Andrej e poi mamma Julia partirono per varcare l’Oceano, di Varchola ce ne sono ancora parecchi. E tutti si spacciano per cugini di Andy. In America il cognome suonava strano, fu inglesizzato in Warhola. Così si firmano ancora il fratello di Andy, Paul, e suo figlio James; Andy, invece, fece cadere anche la a finale.
La famiglia Varchola proviene dal villaggio di Mikova, 178 abitanti, a pochi chilometri da Medzilaborce, al di là del fiume. Il padre Andrej se ne andò nel 1913 per evitare il servizio militare. C’era odore di guerra nei Balcani, tanto per non smentire la tradizione. Meglio cambiar aria, andare lontano, molto lontano. In America, dove, oltre che stare ben alla larga dai conflitti europei, c’era anche la possibilità di trovare un buon lavoro. Magari nelle industrie di Pittsburgh, dove già molti ruteni si erano trasferiti, formavano una piccola colonia, avevano anche una chiesa tutta loro. Lavora duro, papà Varchola. Passano lunghi anni prima che sua moglie, Julia Zavackova, abbia la possibilità di raggiungerlo in America. Mikova continuava a dibattersi in una devastante povertà. Solo nel 1921 Julia si fa prestare da un prete i 180 dollari che servono a comprare il biglietto che la porterà da Danzica al di là dell’Oceano. Otto anni più tardi nascerà Andrej, il più giovane dei tre figli, in precedenza erano nati Paul e John. Papà Andrej morirà nel 1942, mamma Julia nel 1972.
Oggi Mikova è un villaggio minuscolo, abitato prevalentemente da anziani. La scuola è stata chiusa anni fa, non c’è nemmeno un’osteria dover tracannare un po’ di vino e annegare un po’ di tristezza. Il municipio è un casolare bianco, un po’ più grande degli altri edifici, con la bandiera slovacca esposta a una finestra. La strada si arrampica in leggera pendenza lungo il fianco dell’altura. Da un lato, il destro provenendo dal fondo valle, scorre un torrente. Dall’altro lato si susseguono le case: quadrate, ampie, dipinte di bianco, con gli infissi verdi o celesti. Qualche anziana guarda incuriosita chi passa lungo la strada. La parola «Warhol» risulta del tutto estranea. «Andrej Varchola» suscita invece una reazione: «Hore», risponde l’anziana. «Hore» («sopra») ribatte un’altra. Neanche Mikova fosse una metropoli con downtown e un quartiere sulle colline. E allora non resta altro che andare «hore», seguire la strada, fare un paio di curve. Il torrente lascia il paese, ora le case sono da entrambi i lati. Qualcuna è abbandonata: le tegole di una pietra simile all’ardesia sono in parte sparse sull’erba. Gli intonaci mezzo scrostati lasciano vedere il materiale con cui sono fatti: fango impastato con paglia. La pioggia lo inzuppa e contribuisce a farlo cadere. Anche «hore», in ogni caso, la tracce di Warhol sono labili. Un anziano spiega che la casa della famiglia Varchola si trovava lungo la strada che parte dal bivio dove gira la corriera. La casa non c’è più, spazzata via dal tempo. C’è invece una fabbrica, ormai chiusa, che si arrugginisce alle intemperie. Forse un tempo portava un po’ di ricchezza in paese. Ora è solo un monumento alla tristezza di un posto triste. «Io vengo dal nulla». E il nulla si può riferire anche al popolo cui Andy Warhol apparteneva: i ruteni. Piccola digressione. Chiunque abbia un po’ di confidenza con la Cacania di musiliana memoria, sa che nelle terre di Sua Maestà l’imperatore d’Austria e re d’Ungheria si parlavano 33 lingue, delle quali 9 avevano rango ufficiale. Tra queste, il ruteno. Mentre gli altri otto popoli hanno prima o poi ottenuto di vivere in uno Stato indipendente (qualcuno molto poi, come gli slovacchi che hanno uno Stato proprio solo dal 1993), i ruteni (o russini) uno Stato loro non l’hanno mai avuto e, per quanto sia possibile umanamente prevedere, mai l’avranno. Parlano una lingua parente stretta dell’ucraino, scrivono con l’alfabeto cirillico, hanno un rito religioso del tutto simile a quello ortodosso, ma sono cattolici, in quanto riconoscono la supremazia papale. Tra i piccoli popoli europei, insomma, quello ruteno può iscriversi tra gli sfortunati. L’unico momento di gloria i ruteni l’ebbero dopo la Prima guerra mondiale, quando formarono un loro parlamento che si riuniva a Presov, in Slovacchia. Ma, dopo la Seconda guerra mondiale, Stalin si pappò un bel pezzo di Rutenia, inglobandola nell’Ucraina. Si tratta dell’area che ha come capoluogo Uzgorod, chiamata ancor oggi dai ruteni col suo nome ungherese: Munkacevo (la Rutenia faceva parte dei territori asburgici amministrati da Budapest). I ruteni sono circa 250 mila, vivono nella regione subcarpatica, divisi tra Slovacchia, Polonia e Ucraina.
Andy Warhol è l’unico ruteno ad aver raggiunto fama mondiale e qualcuno ritiene che i russini debbano farne una specie di gloria nazionale. Ma il direttore del museo non è d’accordo. «Non è così popolare tra i ruteni», osserva, «per molto tempo era un personaggio ignoto. La gente di qui lo conosce più che altro attraverso la madre Julia, attraverso i ricordi degli anziani che avevano conosciuto la madre». Ormai, però, non ce ne sono più, sarebbero troppo vecchi. «Preferisco rimanere un mistero»: è un’altra affermazione di Warhol, datata 1967. Un mistero come la presunta visita nei luoghi d’origine della sua famiglia. Non c’è nessuna prova che sia realmente avvenuta, anzi Warhol aveva sempre negato di essere mai stato in quel remoto angolo di mondo da cui erano partiti i suoi genitori. Ma in paese giurano il contrario. Helena Bosnovickova, una paesana, afferma che negli anni Sessanta un bel giorno arrivò nel villaggio un personaggio scortato da un’armata di guardie del corpo: Andy in persona che fece un rapido giro a Mikova per poi andare a Presov a parlare con un docente universitario di storia dell’arte. Helena Bosnovickova sostiene che la madre di Andy, Julia, scrisse a sua madre, Eva, per avvisarla della visita del figlio. Visita che durò pochissimo perché Warhol non voleva attirare l’attenzione su di sé in un piccolo villaggio e perché era atterrito dalla condizioni di vita durante il comunismo. L’unico ricordo concreto lo avrebbe lasciato al professore universitario: un assegno grazie al quale questi si sarebbe allargato la casa. Vero? Falso? Chissà. Sicuramente un mito, in ogni caso. Così come un mito è la storia dei quadri di Warhol buttati nel torrente durante le pulizie di primavera. L’unica cosa certa è che sembra impossibile che quel rigagnolo che scorre lungo la strada di Mikova sia in grado di portarsi via addirittura dei quadri: o c’era una piena, o le tele devono essersi fermate tra i sassi per un bel po’. Certo è che la madre di Helena, Eva, andò a New York a metà degli anni Sessanta a trovare la cugina Julia. Esiste ancora la prova di quel viaggio: una carta d’imbarco dell’Air India, esposta nel museo di Medzilaborce. Helena racconta che sua madre tornò con vestiti, scarpe, quadri e un orologio d’oro nascosto tra i capelli: tutti regali di Andy Warhol a questi parenti che non aveva mai visto e che non avrebbe probabilmente mai voluto vedere. Ma neanche i suoi lontani parenti di Mikova avevano troppa comprensione per i suoi lavori: papà Vasil non appena vide quei quadri si rifiutò categoricamente di concedere loro lo spazio sui muri che invece doveva essere riservato alle sacre icone. Il verdetto fu inappellabile: soffitta. «Così» racconta Helena, «quei bei dipinti, luminosi, pieni di animali e fiori, finirono nel solaio. Dopo alcuni anni, durante le pulizie di primavera, mia madre disse che i quadri prendevano troppo spazio e ci ordinò di aiutarla a buttarli nel torrente. Se non l’avessimo fatto, sarei miliardaria, adesso». E una brutta fine fecero anche le scarpe multicolor, sempre by Andy: «Tenemmo in casa», ricorda ancora Helena, «solo le due valigie che contenevano i quadri, anch’esse dipinte da Andy. Mia madre ricavò una scarpa dalla sua valigia. Era splendidamente decorata. Ma la gettò via perché non sapeva che farsene di una scarpa sola». Andy continuò a mandare scarpe ai suoi parenti di Mikova. Oggi varrebbero centinaia di milioni. «Le usavamo per andare a lavorare nell’orto», spiega Helena, «non avremmo mai potuto camminare per il paese con delle scarpe così strane ai piedi». Helena ricorda le lettere che sua madre scriveva da New York: «Andrej (Andy) mangia sempre cibi dai barattoli. Ula (Julia) li scalda sopra cucine che non hanno bisogno di legna. Non mangiano molto in America, ma tutto quello che mangiano viene fuori da barattoli di metallo». Più o meno dello stesso stile è la descrizione di Warhol. «Andrej sembra che non veda mai il sole. Non sta mai tranquillo: sta sempre telefonando o andando in giro con una scatola piena di voci umane, sicuramente un lavoro di Satana». Eva e Julia passavano la maggior parte del loro tempo pregando. «Ula dice che Andrej», sono ancora le lettere di Helena a parlare, «è troppo timido per pregare con me. Parla solo quando Ula gli domanda qualcosa. Risponde sempre con una parola che sembra come oku. Non capisco cosa vuol dire, ma per Ula va bene» («Ok», bandito dalla Cecoslovacchia e dall’Est comunista come un’espressione capitalista, doveva suonare piuttosto estraneo in un villaggio slovacco di neanche 200 persone). L’influenza di mamma Julia su Andy fu profonda. Nonostante la sua fama di bohémien festaiolo, Warhol andava in chiesa tutti i giorni, teneva con sé un messale e non beveva quasi mai. La madre gli parlava in ruteno, ma Warhol rispondeva sempre in inglese. Julia viveva a New York come se fosse a Mikova, per esempio non chiudeva mai la porta di casa, abitudine che trasmise anche ad Andy e che rese indubbiamente più facile all’attrice Valerie Solanas sparargli, nel 1968. Tutta la famiglia Varchola ruotava attorno alla Ruska Dolina, ovvero il distretto ruteno di Pittsburgh, dove c’era la chiesa con le pareti ricoperte di icone. Qualcuno sostiene che i ritratti multipli eseguiti da Warhol richiamino le centinaia di icone addossate l’una accanto all’altra delle chiese rutene e ortodosse. E anche la tecnica di ritoccare le fotografie avrebbe qualcosa di familiare: lo faceva mamma Julia con le foto di Andy. Mamma Julia che era una sorta di artista-contadina. Alcuni suoi pastelli naïf e alcuni suoi ritratti basati sul ritocco fotografico sono esposti nel museo Andy Warhol. Indubbiamente sono molto più vicini alla mentalità della gente di Rutenia che non quelli del figlio. Perciò, forse, da queste parti Julia è più celebre del figlio Andy, il cui lavoro è «difficile da capire». Parola di Vlado Varchola, poliziotto a Medzilaborce, uno dei tanti «cugini» che non hanno mai abbandonato il nulla.



Sta in: http://www.diario.it/cnt/speciali/Diario5anni_51/MarzoMagno_p148.htm

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