BRUNO ARPAIA

Il Secolo XIX – 02/08/2001

Il piacere di ritrovare i gesti lenti

Brutta bestia, il tempo. Non solo quello che passa e scorre via, quello di cui siamo fatti e che cerchiamo inutilmente di ingannare, ma ormai anche l'altro, quello che porta pioggia o neve o questo caldo becco in cui l'Italia affoga. Ci aspettano ancora giorni sui quaranta gradi, umidità asfissiante, aria vischiosa che solo ad aprire la bocca porterà via il respiro.

Dicono i meteorologi che è “frutto di un'anomalia climatica causata dall'anticiclone atlantico rinforzato da un afflusso di aria sahariana”. Sarà. Magari, invece, è colpa del buco dell'ozono o dell'effetto serra. E magari è proprio per questo che il caldo estivo o il freddo in pieno inverno non ci sembra più normale. Tutto si avvolge di un alone incombente, che trova subito uno specchio nei titoli allarmati dei giornali.

Come se fosse una notizia, a luglio o a agosto, un giorno o due di caldo appiccicoso. Però, la verità, non è soltanto il caldo: c'è il rischio della siccità, l'assedio delle zanzare tigre, l'inquinamento, l'ozono oltre la soglia. Stare in città significa pericolo. Bambini, anziani, asmatici, bronchitici: attenzione, restate a casa, bevete, mangiate tanta frutta. Siamo già quasi in pieno Ballard, nel suo Vento dal nulla, nel suo Terra bruciata, romanzi di catastrofi, di morte della civiltà. Sì, certo: fantascienza. Ma soli venti o trent'anni fa, andando a spasso per le città deserte, respirando quell'alito da forno che saliva dall'asfalto, con gli occhi appannati e i visi d'olio, immersi nel silenzio, avremmo mai potuto immaginare quello che ci aspettava? Adesso non ci rimane altro che approfittare del poco che l'estate in città ci può ancora regalare. Se si ha la forza, se la temperatura non ci taglia del tutto le gambe o perfino le parole, ci si consola con l'evitare il rito postmoderno del parcheggio, quella mezz'ora passata a girare sotto casa, stanchi, nervosi, scrutando impazienti i marciapiedi come clienti di signorine allegre. Oppure vuoi mettere riuscire ad arrivare in ufficio in dieci minuti invece che in tre quarti d'ora? A me questa città più a misura umana mi consola, già basta a relegare in qualche soffitta dalla testa il cielo basso, le nuvole gommose, il caldo che t'insegue dentro casa come un delfino spiaggiato per morire.

Ma c'è di più, di meglio. E' che col caldo uno ritrova il gusto dei gesti lenti lenti, il piacere di prendersi una pausa in questo nostro divorare tutto senza mai soffermarci su nulla, la gioia di allargare gli intervalli, di stabilire zone liberate dentro la tirannia della velocità e di godersi con calma un gelato, una chiacchiera o una sigaretta al primo fresco della sera. “Intelligenti pausa”, ha scritto Franco Cassano giocando con un antico detto latino: la persona intelligente è quella che conosce l'arte della pausa, l'arte di flaner, di cazzeggiare. E' qui, nel matrimonio fra il caldo e la lentezza, che il tempo cosmico, quello meteorologico e quello biologico si saldano di nuovo. Come una volta. Come ai beati tempi in cui esistevano ancora le stagioni.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 02/08/2001