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Il momento di aprirsi |
Forse era inevitabile. Dopo l'orrore, lo sgomento, il lutto per il massacro delle Twin Towers, spunta qua e là il richiamo, spesso subdolo e sotterraneo, all'identità e alle radici dell'Occidente, alla necessità di tracciare linee di divisione fra l'io e l'altro, fra l'amico e il nemico. Eppure, a ben riflettere, quei quattro aerei lanciati contro i simboli della nostra civiltà usando con metodica precisione la nostra stessa tecnica e i nostri media, o il presidente Bush che utilizza (forse inconsapevolmente) le stesse parole dei mullah di Kabul e promette di guidare il mondo alla vittoria in nome del Bene contro il Male, dovrebbero spingerci a considerare che la globalizzazione ci attraversa tutti, che le antiche divisioni, prima fra tutte quella tra Oriente e Occidente, ma anche quella fra ricchezza e povertà, sono dentro di noi.
Lo dimostrano i 50 milioni di poveri degli usa o i milioni di cittadini musulmani delle nazioni democratiche. Come ha scritto Ida Dominijanni, ormai non esiste più nessuna parte separata dall'altra, nessuna cultura incontaminata, nessuna comunità se non quelle immaginarie, e pericolosissime che possa rivendicare una qualche purezza, e nemmeno un'assodata certezza di valori. Oriente e Occidente si accorgono di essere l'uno dentro l'altro, e divisi ciascuno al proprio interno da analoghe linee di frattura.
Per questo è così importante ribadire la necessità di non chiudersi a riccio, di non rifugiarsi in illusorie identità e comunità perdute, ma continuare ad aprirsi, a lasciarsi contaminare, checché ne pensino gli isolazionisti statunitensi, i nazionalisti baschi o i secessionisti padani. Se non lo facciamo, ha dichiarato Jeremy Rifkin al Secolo XIX, e continuiamo ad aumentare il deterrente militare, allora accadranno due cose: il terrorismo prolifererà e noi perderemo la nostra apertura sociale, con gravissimo rischio per la nostra libertà e i nostri diritti civili.
Aprirsi agli altri proprio nel momento più grave e difficile della nostra storia? Sembra un paradosso, una velleità buonista, ma non lo è. E' anzi un atto di coraggio e di forza. Nel suo più recente libro, Raffaele La Capria ne spiegava benissimo le ragioni: Il pericolo di chi tiene troppo alla propria identità e ci si chiude dentro è che questa diventa un carcere mentale, o se si preferisce una mentalità. Quando l'identità diventa una mentalità, vuol dire che è ristretta e debole. Dove c'è una forte realtà c'è anche una forte identità, e una forte identità è quella cha sa aprirsi al mondo perché sa di non perdersi, ma anzi di arricchirsi, conoscendolo.
Per questo, anche sotto attacco, con l'enorme fardello di migliaia di vittime da portare a fatica sulle spalle, non dovremmo dimenticare che l'Occidente è la Terra del Tramonto, che la nostra civiltà dà ormai segni inequivocabili di stanchezza e di debolezza. Perciò, per ritrovarci e rinnovarci conservando in qualche modo la nostra identità e le nostre tradizioni, le nostre libertà e le nostre conquiste sociali, sarebbe bene seguire i consigli della vecchia Ursula, la matriarca di Cent'anni di solitudine, quando tentava di contrastare il declino della grande casa dei Buendìa a Macondo, che una volta era stata aperta e ospitale: Che si aprano porte e finestre gridava Ursula. Che si faccia carne e pesce, che si comprino tartarughe più grandi, che vengano i forestieri a stendere le loro stuoie negli angoli e a orinare sui rosai, che si siedano a tavola a mangiare quante volte vogliono, e che infanghino tutto coi loro stivali, perché questo è l'unico modo per scacciare la rovina.
Se l'Occidente si abbandonasse alla sete di vendetta, se confondessimo mondo arabo e fondamentalisti islamici, se, come ha detto Rifkin, evitassimo di confrontarci con l'ingiustizia e la povertà, che sono il terreno di coltura degli estremisti, se inseguissimo, al posto della giustizia, una risposta spettacolare al massacro del World Trade Center, sarebbe come tirarsi la zappa sui piedi: nessuno di noi potrebbe più vivere ragionevolmente sicuro di nulla, stretto fra la minaccia terroristica e le continue violazioni della propria privacy in nome della sicurezza.
Non riesco davvero ad immaginare una vita più orribile di quella vissuta in questa prospettiva. La casa dei Buendìa, quella grande casa aperta e ospitale, è la democrazia in cui, per fortuna, ancora viviamo. E in cui, nonostante tutto, vorremmo continuare ad abitare.
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 20/09/2001
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