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Nuova peste, ma che untori chiamiamoli terroristi |
Si fa presto, a dire untori. Lo sappiamo benissimo che non sono mai esistiti, eppure anche oggi, di fronte a un pericolo subdolo come l'antrace, continuiamo a evocarli, nel tentativo di offrire una parola, un volto, un nome, un nemico, in pasto alle nostre più terribili paure. Come durante le epidemie di peste del Trecento, quando migliaia di vagabondi, mendicanti ed ebrei, accusati di spargere i miasmi della Morte Nera, vennero bruciati vivi o massacrati nel sonno. Come nella famosa peste di Milano del 1630, quella raccontata da Manzoni, quando a pagare le conseguenze del panico di fronte all'ignoto furono, tra gli altri, tali Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, che i giudici si ostinarono in malafede a ritenere colpevoli di spargere un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, composto di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati.
Cose d'altri tempi? Niente affatto. La storia degli untori non finisce lì. Quando, alla fine dell'Ottocento, la Sicilia fu colpita dal colera, ci si divise in due partiti: i culunnisti, secondo cui il contagio era dovuto al virus che viaggiava sulle ali dello scirocco, e i baddisti, convinti che il morbo veniva propagato da untori prezzolati dal governo che distribuiva polpette avvelenate per risolvere i problemi demografici. I baddisti, poi, trovarono seguaci durante l'epidemia di Spagnola del 1918: il flagello era colpa del governo, che voleva sfoltire la popolazione in eccesso. Avevi voglia a spiegare, a ripetere che di Spagnola morivano anche i governanti. La gente ti rispondeva che lorsignori avevano sbagliato bottiglia, che avevano scambiato l'antidoto con il veleno e ci avevano rimesso le penne per errore. E che dire delle voci, dei bobards, che si diffusero a Parigi prima dell'invasione nazista nel Quaranta? Oppure vogliamo ricordarci di quando il Pci diede degli untorelli ai ragazzi del Movimento del Sessantotto. O dei timori irrazionali scatenati dall'Aids?
Niente da fare: il tempo passa, ma noi continuiamo a rifiutarci di prendere lezioni dalla storia. Gli untori non esistono, non sono mai esistiti. Nemmeno adesso che ci dobbiamo difendere da un nemico silenzioso, che può colpirci in ufficio acquattato nella tastiera del computer o raggiungerci a casa nascosto in una lettera.
Ho letto che un esperto ha consigliato di stirare la corrispondenza per controllare che non sia piena di spore. Ma come dirlo al postino in piedi sulla porta? Mi scusi un attimo, che attacco il ferro e do due botte in piedi prima di ritirarla? Dicono che per salvarsi bisogna iniziare a curarsi prima che compaiano i sintomi. Ma come si fa a curarsi se non si hanno i sintomi? No, non c'è scampo. E questi non sono untori: magari avessero le facce contadine di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora.
Quelli di adesso, va ripetuto, sono terroristi, e non si può trovare parola più offensiva: imbucano il terrore e lo mandano in giro per il mondo, a chi capita capita, senza nemmeno prendersi la briga di sapere chi c'è dietro la porta che hanno unto. Qui stiamo scherzando con il fuoco, siamo seduti su una polveriera come ha detto Ryzsard Kapuscinski. James Woolsey, l'ex direttore della Cia, ha dichiarato a questo giornale che dietro le lettere all'antrace ci potrebbe essere l'Irak di Saddam.
Un attacco politico, dunque; la religione c'entra poco o nulla, qualunque cosa proclamino Bin Laden e i suoi luogotenenti. Perciò, adesso più che mai, dobbiamo stare attenti a non gridare dàgli all'untore come ai bei tempi dei Promessi Sposi. E gli untori di oggi, gli innocenti travolti dalle nostre paure, potrebbero essere le centinaia di milioni di musulmani che qualcuno insiste nel ritenere a tutti i costi colpevoli, attizzando o ingigantendo la diffidenza e l'odio che già provano nei confronti dell'Occidente.
Bisogna mantenere i nervi saldi, invece, per non ripetere gli sbagli del 1630, denunciati da Manzoni: Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già più o meno dominanti, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti.
Durante le peste del Trecento, c'era chi si flagellava di città in città per placare Iddio che puniva la cattiveria degli uomini, chi decideva di godersi la vita perché tanto la morte gli si era ormai appiattolata addosso, chi, potendoselo permettere, si ritirava in campagna a raccontare storie, come le sette fanciulle e i tre giovani del Decamerone di Boccaccio, e chi se la prendeva con gli emarginati o con gli ebrei. Oggi: lo stesso. Un pericolo incombente, una guerra, una situazione estrema cavano fuori il meglio e il peggio di ogni uomo.
Perciò, se è vero che, come ha scritto Michele Serra, l'attentato dell'11 settembre ha drammaticamente reso qualcuno migliore, nel senso che gli ha fatto riconsiderare il peso della vita e della morte, lo ha costretto a leggere e a pensare di più, a rivalutare gli affetti e le amicizie, è anche vero che c'è chi ne ha approfittato per dare libero sfogo al proprio fondamentalismo, alla barbarie. Andando contro la legge, la Costituzione, l'etica, la possibilità pratica e la logica, il leghista Speroni ha chiesto di vietare l'accesso in Italia ai musulmani, subito seguito dal collega Borghezio: Dàgli all'untore. Il ministro Bossi li sostiene. E il presidente del Consiglio tace. Ma avrà le sue ragioni: lui ne capisce, di 'ste robe. Era o non era l'Unto del Signore?
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 21/10/2001
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