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Bruno Arpaia
IL SECOLO XIX – 03/06/2002

Piccolo Ecuador bello e dimenticato

Nel 1736, alla guida di una spedizione di philosophes e scienziati, il francese Charles-Marie de la Condamine arrivò finalmente nel villaggio di San Antonio, una ventina di chilometri a nord di Quito. Le sue accurate misurazioni dimostrarono che di lì passava realmente la linea della “latitudine zero” e che la terra non è una sfera perfetta, ma un po' rigonfia all'equatore. Quei calcoli, inoltre, servirono a gettare le basi della grande rivoluzione del sistema metrico decimale che avrebbe ben presto investito quasi tutto il globo.

Fu forse l'unica volta che l'Ecuador, che a quei tempi non era nemmeno indipendente dalla Spagna e si chiamava ancora Audiencia de Quito, ebbe un posto di rilievo nel libro della storia mondiale. Dopo, per secoli, al massimo ha conquistato qualche nota a piè di pagina a caratteri minuscoli.

Un paese apparentemente dimenticato, così “normalmente” latinoamericano, con i suoi undici milioni di abitanti, 50% indios quechua (gli stessi del Perù) e 40% meticci, con i suoi grandi squilibri, le sue enormi ricchezze naturali e la sua estrema povertà. Più del 30% della popolazione vive sotto la soglia di sopravvivenza, un solo capofamiglia su dieci ha un lavoro regolare.

Un ecuadoriano medio ha alle spalle non più di quattro anni di scuola, quaranta bambini su mille muoiono nel primo anno di vita, solo tre abitanti su cento possiedono un telefono.

Eppure i grandi flussi della globalizzazione economica sono passati anche da Quito, la capitale, e da Guayaquil, la grande città sulla costa, aggravando le differenze, esacerbando la corruzione delle classi dirigenti, prendendo di mira la nuova grande ricchezza nazionale, il petrolio, che ha sostituito le banane e i cappelli “panama”, imponendo, attraverso il Fmi e la Banca mondiale, politiche di liberalizzazione estrema fino alla recente “dollarizzazione” del settembre 2000, che ha fatto scomparire il sucre, la secolare moneta ecuadoriana, sostituita dal biglietto verde dello Zio Sam.

Nei decenni precedenti, come molti paesi di quell'infelice continente, anche l'Ecuador aveva avuto la sua quota di dittatura militare, di destra e di sinistra, e la sua parte di guerriglia, non troppo sanguinaria né particolarmente rumorosa. Aveva fatto la sue guerre e, come il colonnello Aureliano Buendía di Cent'anni di solitudine, le aveva perse tutte, tranne quella d'indipendenza dalla Spagna nel XIX secolo.

Aveva combattuto col Perù cedendo via via fette sempre maggiori di giungla amazzonica, ma soprattutto, dal vicino del Sud, era stato sconfitto nella guerra del turismo: anche Quito e Cuenca, infatti, erano state floride città dell'impero incaico, però, a differenza del Cuzco e di Machu Picchu, di quegli splendori passati, in Ecuador non è rimasto quasi nulla, se non poche rovine. Così le migliaia di turisti che ogni anni visitano il paradiso della Galápagos, le isole (ecuadoriane) dove Charles Darwin elaborò la sua teoria dell'evoluzione, preferiscono partire da Lima invece che da Guayaquil.

Negli ultimi tempi, poi, la situazione è precipitata: sei presidenti in cinque anni, colpi di stato tragici, ma con caratteristiche perfino comiche e rocambolesche, inflazione al cento per cento l'anno, imposizioni del Fondo Monetario, calo vertiginoso del prodotto interno, aumenti indiscriminati delle tariffe, fallimenti di banche, scomparsa della già esigua classe media, miseria crescente e livelli di emigrazione vicini al 13 per cento della popolazione delle scuole superiori finite in massa a fare le cameriere a Roma, a Houston o a Madrid. Come in Argentina, ma senza meritarsi nemmeno le prime pagine dei giornali di tutto il mondo.

Logico che tutto questo abbia portato a una serie di rivolte indigene, con marce sulla capitale, assedi a intere città, morti e feriti per le strade: peggio che in Chiapas. Però neanche stavolta i grandi giornali e le grandi televisioni europee hanno ritenuto di dover dedicare “una frase, un rigo appena”, avrebbe detto Manuel Puig, a quelle tragedie.

Eppure l'Ecuador è un paese bellissimo, dove la “selva”, la “sierra” e la “costa”, tre paesaggi diversissimi e contrastanti, sono quasi a contatto di gomito: in poche ore si passa dalle terse vette andine oltre i seimila metri all'aria umida e pastosa della giungla, assediati dalle larghe foglie dei banani, oppure alla garùa, la nebbiolina che staziona sul cielo del Pacifico; dai 2.800 metri di Quito, austera, riservata e coloniale, all'esuberanza quasi tropicale del porto di Guayaquil; dalle nevi eterne del Chimborazo alle spiagge di Acatames.

Da lì, da quei paesaggi e da quelle tragedie, incitati idealmente dai cinquantamila dello stadio Atahualpa di Quito, arrivano i primi avversari dell'Italia in questo Mondiale. Per loro, il calcio è ancora il grande sogno che fa dimenticare tutto, ingiustizie, miserie, sofferenze. E la partita con la grande Italia rappresenta l'ennesima speranza di fare accendere sul loro dimenticato paese almeno un riflettore del grande spettacolo dei media, di conquistare finalmente un piccolo paragrafo nel libro di bordo del pianeta.

Perciò “in bocca al lupo”, perché no?, anche a loro.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 03/06/2002

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