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Quei resistenti figli dei Maya |
Peccato. Sono così simpatici, i messicani, che proprio non ci voleva questa sfida all'ultimo respiro. Siamo così simili, così vicini, noi e loro, che piange il cuore a dover combattere fino all'ultimo gol con Blanco, Borgetti e compagnia, con un occhio a Ecuador Croazia e la testa persa nei complicati calcoli della differenza reti. D'accordo, loro non sono il Brasile, ma, diciamocelo, al momento nemmeno noi siamo chissà chi. E poi, loro sono gasati, noi alquanto tramortiti e preoccupati. Perciò, attenzione: sono pieni di risorse, i messicani. E sanno essere testardi e spigolosi, come la loro capitale, Città del Messico, capace di durezze incredibili: con gli stranieri, ma non solo. Perfino i suoi venticinque milioni di abitanti la chiamano El Monstruo (Il Mostro), assillati dagli occhi che lacrimano per l'inquinamento, dalla marea di bambini, ragazzi, automobili, venditori ambulanti di torroncini, penne usate e mutande, da lustrascarpe, mangiafuoco, improbabili uomini d'affari che ne affollano le strade, dai poliziotti che ti derubano di notte, dagli autobus scalcagnati e puzzolenti che se ne vanno a zonzo per il centro storico o negli sterminati quartieri dormitorio sotto una patina grigia e quasi eterna di smog e di caligine.
Ma bisogna resistere. Perché, dopo aver magari sofferto qualche giorno, si può poi approfittare di una città viva e vitalissima, dove quel particolarissimo impasto di orgoglio culturale, di cortesia, di tolleranza e allegria che costituisce la messicanità dà il meglio di sé.
Mezzo millennio fa, nella valle dove oggi sorge Città del Messico, sul lago di Texcoco, c'era Tenochtitlàn, la capitale azteca, che nel 1519 abbagliò Hernán Cortéz e il suo cronista, Bernál Díaz del Castillo. Era più grande, popolata e bella di qualsiasi città di Spagna. Oggi Città del Messico non si può più dire bella, ma è certamente una delle più estese conurbazione del pianeta. Fa paura, pensarlo. Eppure, superato il brivido, si scopre che, a dispetto della miseria, dell'inquinamento, dell'alto tasso di violenza, El Monstruo miracolosamente funziona. Come la squadra di Aguirre. E solo allora vengono alla luce le sue ricchezze, la sua forza. Perché in Messico la vita è la vita sul serio, perché il messicano è ancora capace di guardare negli occhi la morte. Lo spiega bene Octavio Paz nel Labirinto della solitudine: loro, i figli dei Maya e degli Aztechi, con la morte ci giocano, ci scherzano, la prendono molto sul serio, la adulano, la festeggiano, la accarezzano, la respingono appena un po' più lontano. Quel tanto che basta a fare apprezzare la vita per quello che vale.
Il nostro culto della morte è culto della vita, scrive Paz. Parole grosse,forse. Eppure, in Messico diventano vere, palpabili, normali. Sarà per questo che i messicani resistono imperterriti e vitalissimi a ogni disavventura, a ogni uragano politico, storico, sociale, economico che si abbatte sul loro bellissimo e variegato paese. Hanno sopportato settantun anni di dittatura perfetta (la definizione è di Mario Vargas Llosa) del Partito Rivoluzionario Istituzionale, mantenutosi al potere grazie a un diffuso sistema di corruzione e di ricatto e svolgendo ogni sei anni regolari elezioni. Hanno assistito alla corruzione del presidente Salinas e all'ascesa al potere di Zedillo. Un'ascesa che sembrava trionfale, e invece, dopo pochi mesi, altri uragani: l'inizio della guerriglia in Chiapas, la scoperta della trama dell'assassinio del candidato ufficiale alla presidenza della repubblica, Luis Donaldo Colosio, e soprattutto lo scoppio della crisi economica, seguita a un decennio di finto miracolo, durante il quale il numero delle persone al di sotto della soglia minima di sopravvivenza era raddoppiato. Una crisi che avrebbe dato vita all'effetto tequila, con la moneta ufficiale, il peso, svalutato del 60 per cento e la dichiarazione di bancarotta. Poi, nel 2000, è arrivato Vicente Fox, il presidente che ha messo fine alla lunga dominazione del Pri. I quasi cento milioni di messicani avevano dato fiducia a questo ex manager della Coca Cola, un rappresentante della new wave di imprenditori determinati a guidare i loro paesi come aziende, un omone alto due metri, che indossa cappello e stivali da Far west, pronto a dichiarare spavaldamente che avrebbe risolto il problema del Chiapas in un quarto d'ora. Si sperava in una nuova era.
Invece Fox ha solo cercato di farsi fare la foto insieme al Subcomandante Marcos quando, nel marzo 2001, la marcia zapatista aveva fatto il suo ingresso nella capitale. Invece gli zapatisti e gli indios sono ancora lì, assediati dall'esercito nella selva chiapaneca. Invece, specie al confine con gli Stati Uniti, sono ancora in funzione decine di migliaia di maquilladoras, lugubri capannoni dove milioni di messicani assemblano pezzi altrui ricevendo stipendi da fame, cento volte più bassi che dall'altra parte del confine. Invece sono sempre più smaccati i tentativi delle multinazionali alimentari e farmaceutiche di brevettare le sementi e le erbe usate dalle culture indigene, espropriandole della loro ultima ricchezza. Invece sono sempre più aggressive le manovre per imporre il cosiddetto Pian Puebla-Panamà, un progetto sostenuto dagli Stati Uniti che prevede la costruzione massiccia di porti, autostrade, ferrovie, impianti industriali, con l'obiettivo di trasformare la vastissima regione del Sud ricca di immense risorse geostrategiche e culla della biodiversità nel Giaguaro americano, che dovrebbe fare da contraltare alle Tigri asiatiche: ovviamente, con gli stessi livelli di profitto per le multinazionali. E con il corollario della distruzione totale di un altro polmone verde del pianeta, lasciando a rantolare anche noi qui in Europa.
Insomma, sarà stracitata, la vecchia frase pronunciata dal dittatore Porfirio Díaz, cent'anni fa, ma è sempre più vera. Cosa diceva don Porfirio? Diceva: Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti. Vedeva lontano, lui. Ma i messicani, nonostante tutto, resistono. Perché sanno guardare la morte negli occhi. Come guarderanno negli occhi i nostri giocatori. E si butteranno nella mischia con la loro prorompente vitalità e con la loro passione. Merci che, da questa parte dell'oceano, ormai scarseggiano. E' tutta lì, la sfida tra l'Italia e il Messico.
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 13/06/2002
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