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Bruno Arpaia

La storia di un anarchico

Fu Bruno Vespa, dall'unico tiggì ancora in bianco e nero, a dare la notizia: il Mostro era stato catturato. Non c'era nessun dubbio: era stato lui, Pietro Valpreda, il “ballerino anarchico”, a mettere la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano quel 12 dicembre del '69, lui a provocare quei sedici morti dilaniati. Governo, polizia, giornali: tutti compatti, o quasi. Il Mostro fu sbattuto in prima pagina.

Valpreda finì in carcere, anche se molte, troppe cose, nella ricostruzione della strage, non quadravano. E infatti: vero nulla, Valpreda non c'entrava. Nemmeno c'entravano gli anarchici, e neppure i comunisti capelloni: strage fascista, anzi “strage di Stato”, come si diceva allora, anche se nessuno poteva immaginare fino a che punto lo era per davvero, che la realtà era perfino peggio di tutti i sospetti più balzani. Però ci vollero anni, per chiarirlo. Ci volle il pazientissimo lavoro di alcuni giornalistici non addomesticati, ci volle una cocciuta attività di “controinformazione di massa”, per sbrogliare il garbuglio di bugie, di mezze verità, di depistaggi, di connivenze e imbrogli dei servizi segreti e degli apparati dello Stato, ci vollero processi di cui si perse il conto, ci vollero processi di cui si perse il conto, ci vollero le farfuglianti deposizioni di ministri e segretari di partito, ci volle la tenacia di qualche magistrato che non se la beveva. Soltanto allora, a vent'anni di distanza dalla strage, Valpreda fu completamente scagionato. Intanto, malgré lui, “il ballerino anarchico” era diventato un simbolo, la bandiera di quelli che non si arrendevano alla verità ufficiali, quelli che per tutti gli anni Settanta cercarono ancora di scoprire cosa fosse veramente successo dietro le quinte della strategia della tensione, inaugurata proprio quel 12 dicembre di trentatré anni fa a Milano. Valpreda, già ammalato, aveva forse le spalle troppo fragili per reggere quel ruolo da primattore, seppure involontario. Appena gli fu data l'occasione, si ritirò in disparte. Continuò a frequentare il suo circolo anarchico, ad assistere ai convegni e a partecipare alle presentazioni dei libri, senza mai dare la minima impressione di attribuire troppa importanza al fatto di essersi ritrovato da protagonista e vittima all'incrocio più drammatico dell'ultimo mezzo secolo.

Era stato l'uomo più famoso d'Italia, e si era lasciato dimenticare a poco a poco. Poi, da qualche anno, insieme a Piero Colaprico, sembrava avere ritrovato una verve da tempi andati, scrivendo a quattro mani gialli ambientati in una Milano che non esiste più, forse più povera, ma certamente col cuore meno stretto. Caparbio, risoluto, a quei romanzi Valpreda ha lavorato fino all'ultimo, stringendo i denti, combattendo giorno dopo giorno con la sua malattia, strappandole pagina su pagina. Finché la malattia non ha deciso di voltare lei, la pagina di Pietro. Una pagina da non dimenticare.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 08/07/2002

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