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I naufraghi dello sviluppo |
Fallirà, non fallirà? C'è da attendersi qualcosa dal vertice di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile o è nato già morto? Riusciranno i delegati dei Paesi sovrastati da quella massa di fumo, ceneri, aerosol, acidi e particelle tossiche spessa tre chilometri che va sotto il nome di Asian Brown Haze a mettersi d'accordo con i rappresentanti del presidente americano, l'uomo che si rifiuta di firmare i protocolli di Kyoto e che propone, senza scherzare di abbattere le foreste per evitare gli incendi? E il presidente Berlusconi volerà in Sudafrica a farsi scattare una bella foto ricordo anche se gli sherpa non riusciranno a eliminare dai documenti preparatori le tante parentesi quadre che indicano le questioni sulle quali ancora ci si divide? Quante domande, sui giornali di questi giorni. Troppe, e forse inessenziali. In fondo, come hanno scritto in molti, a Johannesburg si tratta nientedimeno che di salvare la Terra.
Giusto. Però, se fosse vero, bisognerebbe avere il coraggio di mettere radicalmente in discussione proprio il tema del vertice. Sviluppo, infatti, non è una parola neutra, come siamo portati a credere. E' nata una cinquantina d'anni fa come una speranza per i popoli del sud, ma in realtà era stata inventata paternalisticamente da noi europei mentre abbandonavamo le ex colonie. Il suo implicito sottofondo culturale era nostro, occidentale, legato a valori nostri come il progresso, l'universalismo, il dominio sulla natura, la razionalità quantificante. Sviluppatevi e moltiplicatevi, avevamo detto, magnanimi, ai popoli del Sud del mondo. Se vi comporterete bene, prima o poi diventerete come noi. Che importava se, magari, quei popoli non avevano alcuna voglia di svilupparsi a nostra immagine e somiglianza? E che importa, oggi, se quel modello, quel modello di sviluppo, appare evidentemente fallito? Si sa: il Nord ha continuato a crescere, almeno secondo i suoi valori e i suoi parametri, ma il Sud è rimasto al palo, anzi ha fatto molti passi indietro. E per di più la Terra è in serio pericolo, come non era mai accaduto prima.
La verità è che siamo naufraghi dello sviluppo. La verità, come scrive Serge Lafouche, è che lo sviluppo, seppur teoricamente riproducibile, non è universalizzabile. Soprattutto per ragioni di carattere ecologico: la finitezza del pianeta renderebbe la diffusione generalizzata del nostro stile di vita impossibile ed esplosiva. Inutile, insomma, continuare a predicare lo sviluppo sapendo che, se tutta l'umanità vivesse consumando solo un decimo dell'energia di noi occidentali, il pianeta si accartoccerebbe su se stesso in pochi decenni. E' inutile, anche, rivendicare, a destra come a sinistra, da parte delle Nazioni Unite o delle Ong, uno sviluppo addolcito, equo. L'unico sviluppo possibile è questo, quello che abbiamo sotto i nostri occhi, quello, scrive sempre Latouche, che domina il pianeta da due secoli, quello che genera gli attuali problemi sociali e ambientali: emarginazione, sovrappopolazione, miseria, inquinamento. Lo sviluppismo è un'espressione profonda della logica economica. Non c'è posto, in questo paradigma, per il rispetto della natura preteso dagli ecologisti, né per il rispetto dell'essere umano reclamato dagli umanisti.
Lo sviluppo, insomma, non poteva non fallire. Eppure, paradossalmente, lo sviluppo sopravvive alla propria morte, e la sua ideologia continua a riempire il nostro immaginario, con il suo carico di sogni di prosperità crescente per tutti. Una trappola che, a ben vedere, noi occidentali tendiamo anche a noi stessi. Ci culliamo nella possibilità che gli altri, più poi che prima, potranno vivere come noi per non dover ammettere che, continuando a mantenere questo livello di vita e di consumi, stiamo mettendo in pericolo la Terra, la casa in cui abitiamo. Lo so, fa male ammetterlo: a nessuno piace rinunciare a quel che già possiede. Eppure forse è proprio questo che volenti o nolenti, ci toccherà fare. E dovremo prima di tutto rinunciare anche allo sviluppo, una parola avvelenata che, dopo i popoli del Sud del mondo, ha cominciato a intossicare anche noi e le nostre sicurezze. Oddio: lo sviluppo è morto e neanche noi ci sentiamo troppo bene.
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 27/08/2002
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