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Bruno Arpaia

L'agorà dei lettori, un sogno che si ripete

Mantova per noi. Per noi che amiamo raccontare storie e che, di tanto in tanto, con qualche meraviglia, le vediamo anche pubblicate. Per noi che, quando all'anagrafe ci chiedono: “Professione?”, ci nascondiamo dietro un timido e vago “impiegato”, o “giornalista”, o “consulente editoriale”, perché ci sembra presuntuoso rispondere “scrittore”. Per noi che, invece, quando andiamo al Festivaletteratura, crediamo di vivere in un sogno. Un sogno che, per di più, si ripete puntuale ogni anno.

Agli inizi di settembre, infatti, una città intera diventa la grande agorà in cui il popolo dei lettori, dato più volte per estinto, esercita la sua democrazia. Lo fa con semplicità e leggerezza, ma con grande passione. Vengono da ogni parte d'Italia, attardandosi fino alle ore piccole per le vie normalmente solitarie del centro storico, facendo capannelli attorno agli scrittori che passeggiano o cenano o chiacchierano davanti a un buon bicchiere. Si accalcano in fila sotto il sole per assistere agli incontri con gli autori. E pagano, perfino.

E qui, però, noi che scriviamo siamo agitati dal fremito di un dubbio: verranno davvero a sentire quello che abbiamo da dire, oppure il fatto di dover comprare un biglietto scatena “l'effetto supermercato” e ci trasforma in luccicanti merci allineate sugli scaffali delle mode culturali?

Insomma, è quel biglietto che ci dà valore o viceversa? Mah, saperlo. Però quel dubbio, comunque, vas scacciato. Perché in ogni caso è confortante vedere ripetersi il miracolo del tutto esaurito per ascoltare chi non ha altro appeal se non quello della parola, articolo che altrove appare invece sempre più negletto e trascurato. Perché dà la carica tutto quel pubblico che prende appunti, compra libri, discute di letteratura e vita. Perché anche gli scrittori, a Mantova, posson poi trasformarsi in quello che realmente sono, vale a dire in lettori accaniti e appassionati, ansiosi di ascoltare i loro colleghi.

Perché forse è vero che la letteratura non serve assolutamente a nulla, che non ci fa diventare più ricchi, più alti, più biondi o più belli; ma è anche vero che ci fa vivere di più, mettendo alla portata della nostra esperienza milioni di vite altrui che viviamo come se fossero nostre, consentendoci di diventare annoiate signore della provincia francese, come Madame Bovary, o di combattere trentadue guerre e perderle tutte, come il colonnello Aureliano Buendía.

La letteratura, insomma, è il più potente strumento di conoscenza che sia mai stato inventato. Uno strumento che, per di più, dà perfino piacere. Cos'altro si può desiderare? Allora, forse, non bisogna meravigliarsi più di tanto se il miracolo del Festivaletteratura si ripete puntuale ogni settembre. Un miracolo semplice, in fondo, perché fatto solo da uno scrittore o un filosofo o uno storico o uno scienziato che parlano a un pubblico che ascolta e fa domande.

Tutto qui. Senza bande e fanfare, senza lustrini televisivi e senza mondanità. Con stile. Quello stesso stile che aiuta gli scrittori a vincere le proprie resistenze e le proprie timidezze, che li spinge ad affrontare i lettori senza la mediazione della pagina scritta. Perché, confessiamolo, abbiamo dei problemi, noi che raccontiamo. Li spiegava benissimo Augusto Monterroso: “Noi scrittori scriviamo perché siamo timidi, e invece adesso ci fanno perfino parlare in pubblico”.

Ma a Mantova vale davvero la pena di vincere le proprie ritrosie. Perché le facce, gli occhi di chi sta davanti, attento a quel diciamo, sono i nostri stessi occhi, la nostra stessa faccia. La faccia dei lettori: nos semblables, nos frères.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 04/09/2002

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