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Il marchio della paura |
Qualche giorno fa, ho spedito a un amico una mail con gli auguri di buon anno. Lui ha ricambiato e ha concluso: Vedrai che sopravviveranno anche a quest'anno di seconda mano. Lì per lì, sono rimasto interdetto: perché di seconda mano? Poi, di colpo, ho capito. Aveva ragione lui. Vi sembra davvero nuovo di zecca questo 2003 in cui la guerra è già annunciata, anzi forse è già cominciata, intrufolandosi nelle nostre vite come un virus inoculato sapientemente da governanti e mezzi di comunicazione, come un veleno che goccia ci fa abituare a parole belliche antiche e postmoderne?
Sappiamo già che passeremo quest'anno a chiederci ostinatamente perché Mr. George W. Bush si accanisca tanto contro Saddam Hussein, senza aver prodotto finora neppure uno straccio di prova che il dittatore iracheno possiedo armi terribili, e sorvoli allegramente sul signor Kim Jong II, che quelle armi ha già dichiarato di averle e di volerle usare. La guerra all'Iraq si farà, è già scritto. Bush la vuole non solo per questioni di petrolio, ma per ottenere la riscrittura radicale dei rapporti internazionali così come li abbiamo conosciuti finora. L'oro nero, insomma, come strumento e non come fine. Ed è così' lampante, la sua strategia nascosta, che il presidente degli Stati Uniti non ha convinto neppure Massimo D'Alema. E' tutto dire.
Sappiamo, dunque, che passeremo quest'anno con gli occhi rivolti a Baghdad, a Pyongyang, a Grozny e perfino a Hollywood, Florida, dove una setta di adoratori dei marziani ha annunciato di aver clonato un essere umano. E poi fisseremo preoccupati il nostro vicino di casa, l'immigrato che vemde accendini all'angolo, l'uomo con una valigia sospetta in treno, nel timore che possa farci del male. E saremo tanto intenti a guardare altrove, che non riusciremo più a posare lo sguardo sui nostri cari, sui nostri figli, su noi stessi. Vivremo come se tutto fosse già accaduto, come se oggetti, persone, avvenimenti risuonassero di una tonalità emotiva gia sentita. Un lungo, interminabile déjà-vu, che però potrebbe portare a conseguenze incalcolabili. Del resto, comunque vada, questa guerra annunciata ha già pronto il danno più grave, più terribile. Tutti sappiamo, infatti, che vivremo con il marchio a fuoco della paura impresso nei corpi e nei cervelli. Lo facciamo già dall'11 settembre del 2001, ma stavolta, poiché la minaccia è ovunque, o cambia a seconda delle convenienze dei potenti, il terrore sarà generalizzato e pervasivo, farà mutare il nostro stile di vita, ci costringerà a convivere ancora di più di adesso con lo sbigottimento e la rassegnazione. L'anno che verrà, cantato da Lucio Dalla, ci farà mettere i sacchi di sabbia davanti alla finestra. Il grido Tutti a casa risuonerà prima della guerra, e non dopo, come nel bellissimo film di Comencini e come dovrebbe essere nell'ordine naturale delle cose.
La paura, ha scritto Patricia Cornwell, genera paura, e più abbiamo paura più creiamo paura, fino a che verrà il giorno in cui non avremo più bisogno di qualcuno che ci rovini le nostre esistenze. Diverremo perfettamente capaci di rovinarcele da soli. Anche questa citazione non è nuova di zecca, l'ha già usata Barbara Spinelli, ma che importa? La Cornwell esprime meglio di chiunque altro la sensazione diffusa che la paura sarà la nostra apocalisse quotidiana, spezzerà i fili che legano gli uomini gli uni agli altri, ci renderà più acquiescenti, malleabili, spersonalizzati, disposti a vedere immolati sull'altare della sicurezza libertà e diritti che fino a ieri consideravamo sacri. Che volete che sia una Guantánamo qualunque di fronte alla difesa della nostra vita? Così impauriti, invocheremo un Capo, un uomo forte che ci rassicuri, chiederemo leggi più severe, polizie locali e prigioni ancora più strapiene, perseguiteremo i fumatori e guarderemo storto chi azzarderà un'opinione meno scontata. Già visto, già sentito. Per questo sarà un anno di seconda mano. Non ci resta che attrezzarci per sopravvivergli, come scriveva il mio amico. In fondo, anche il 2003 prima o poi finirà. E la speranza è l'ultima a morire. Buon anno a tutti.
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 02/01/2003
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