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Acqua, l'emergenza che fingiamo di non vedere |
A Kyoto, in questi giorni, si parla di acqua. Si parla del presente, di trentamila (ripeto: trentamila) persone, in gran parte bambini, che già oggi muoiono ogni giorno perché non hanno abbastanza risorse idriche o perché sono costrette ad approvvigionarsi da fonti inquinate.
E si parla del futuro, di un futuro non troppo lontano: nel 2020, dicono le Nazioni Unite, gli uomini e le donne senza accesso all'acqua saranno quattro miliardi, più di metà della popolazione mondiale.
A Kyoto si parla di noi, insomma, eppure noi guardiamo insistentemente altrove. Disquisiamo della guerra in Iraq, dell'oro nero o dei pericoli del terrorismo.
Ma non ci accorgiamo che tutti questi eventi dipendono in qualche misura anche dal cambiamento climatico, dall'erosione della biodiversità, dalla difficoltà di accesso all'oro blu e dalla lotta per impadronirsene, dalle ingiustizie sempre più intollerabili di questo modello di sviluppo mondiale.
E' un ciclone che viene dal futuro e che sta già facendo sentire i suoi effetti sul nostro presente, ma noi proferiamo far finta di nulla. E' come se, pur non avendo problemi alla vista, avessimo inforcato un paio di occhiali che ci impediscono di vedere ciò che accade appena un po' oltre la punta del nostro naso. Il guaio è che adesso, quasi accecati da quegli occhiali, siamo sul punto di mettere i piedi in una delle più perfide tagliole della storia: è la trappola dello sviluppo, nella quale l'intero pianeta rischia di rimanere prigioniero e di morire. Lo dice perfino la Banca Mondiale. Nel suo ultimo Rapporto, ha disegnato per il 2030 uno scenario peggiore di qualunque incubo ballardiano, peggiore di Blade Runner, un mondo di bidonville malsane, irrespirabili e violente, dove si affollerà il 65 per cento dell'umanità, alla mercé di pochi padroni dell'acqua, i furbi o i cinici che saranno riusciti a mettere le mani sulla risorsa più preziosa e la razioneranno secondo le loro convenienze.
Un mondo dove perfino il miliardo e mezzo di ricchi farà fatica a vivere, assetato e assediato nelle sue fortezze. E la trappola? Semplice: per riuscire almeno a dimezzare il numero dei poveri, bisognerebbe produrre un pil mondiale di 140 mila miliardi di euro. Ma un mondo così ricco, sostiene il capo degli economisti della Banca Mondiale, Nicholas Stern, semplicemente non potrebbe reggersi, perché aggraverebbe fino a un punto di non ritorno l'inquinamento, l'esplosione urbana, l'estinzione delle specie animali, l'effetto serra e altre simili quisquilie. Insomma, ci vorrebbe un nuovo modello economico, perché perfino secondo la Banca Mondiale non è possibile arrestare il disfacimento del pianeta senza cambiare l'economia e i nostri stessi modelli di consumo.
Dovrebbe, dunque, essere questa la nostra guerra preventiva, l'unica che varrebbe davvero la pena di combattere. Bisognerebbe evitare di gettare ogni giorno nei fiumi due milioni di tonnellate di rifiuti e ridurre drasticamente l'emissione di gas nocivi. Bisognerebbe impegnarsi perché non accada più che l'11 per cento della popolazione mondiale controlli l'84 per cento della ricchezza e consumi l'88 per cento delle risorse idriche. Bisognerebbe fare in modo che gli 837 milioni di persone che oggi vivono sotto tetti di lamiera, negli slums delle megalopoli del Terzo mondo, senza acqua, senza luce e senza servizi igienici, siano restituite a una vita degna.
Bisognerebbe affermare il principio che i servizi e i beni essenziali, come l'acqua, la sanità o la scuola, sono patrimonio comune dell'umanità e non merci da privatizzare e da affidare al mercato, contrariamente a quanto stabilito dal Wto. Bisognerebbe. Invece, per esempio, in Messico il 30 per cento della distribuzione dell'acqua è in mano ai privati e i contadini del Tamaulipas hanno dovuto abbandonare agli sterpi milioni di ettari coltivati. Invece, in Europa Occidentale, le risorse idriche gestite dai privati sono passate dal 10 per cento del 1088 al 22 per cento del 1998, mentre fra pochi anni tre sole società, Suez, Vivendi e Rwe, controlleranno i due terzi dei nostri acquedotti. Invece, con la Finanziaria del 2002, il nostro paese è stato l'unico ad avere praticamente introdotto l'obbligo per gli enti locali di privatizzare l'acqua. Invece, al vertice di Johannesburg dello scorso anno, un cartello di paesi guidati dagli Stati Uniti si è opposto ad assumere impegni reali per dimezzare gli assestati entro il 2015. Poi dice che uno è pessimista.
Ma di questo passo finiremo per annegare nel nostro futuro, quasi ciechi e con la gola riarsa mentre tenteremo di nuotare in un bicchier d'acqua. E a questa fine che ci stiamo preparando con tanto impegno?
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 18/03/2003
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