|
BIBLIOTECA
| |
EDICOLA | |
TEATRO | | CINEMA
| | IL
MUSEO | | Il
BAR DI MOE | | LA
CASA DELLA MUSICA |
|
LA CASA DELLE TERRE LONTANE |
| LA
STANZA DELLE MANIFESTAZIONI | | | NOSTRI
LUOGHI | | ARSENALE
| |
L'OSTERIA | | LA
GATTERIA | |
IL PORTO DEI RAGAZZI |
La globalizzazione della violenza |
Pazzia? Non
c'è dubbio. Bisogna infatti essere completamente folli per
uccidere, in una sequenza degna dei migliori thriller, il sindaco di
Acicastello e tre impiegati del municipio, per freddare subito dopo
un pensionato seduto al sole su una panchina della Villa Comunale,
per attraversare mezza Sicilia e per suicidarsi infine in una chiesa
sparandosi alla testa. Giuseppe Leotta, dunque, era un pazzo, uno
psicopatico. Eppure stavolta non possiamo cavarcela così
semplicemente, non possiamo restare stupidamente allibiti, soffrire
il giusto per le vittime e poi archiviare.
Lo abbiamo fatto tante volte davanti alle immagini riprese da qualche tv locale statunitense, immagini di pazzi entrati in una scuola o in un ufficio dello Iowa o del Vermont armati di tutto punto, sparando ai primi che si trovano sotto tiro. Lo abbiamo fatto anche dopo aver visto il bellissimo film di Michael Moore, Bowling for Columbine. Lo abbiamo fatto nel marzo scorso, quando è capitato qualcosa di simile anche in Francia, in un comune della banlieue di Parigi, dove sono stati massacrati il sindaco e parecchi consiglieri comunali.
Però, stavolta, il folle è fra noi, appartiene a noi italiani brava gente, alla nostra cultura, anzi a quella cultura del Sud accusata spesso di resistere alla modernità e all'individualismo, di ostinarsi a conservare i legami comunitari e di rifiutare quelli sociali. Un tempo, almeno nei paesi, e soprattutto in quelli del Mezzogiorno, la follia era controllata comunitariamente.
Una ragnatela familiare e arcaica fin che si vuole ne teneva a bada le punte più pericolose, che mai, però, toccavano i livelli di violenza a cui abbiamo assistito ad Acicastello. Invece ieri Giuseppe Leotta, in un piccolo centro dove tutti potevano dire di conoscerlo, era tragicamente solo. Solo di fronte alla sua disperazione, alla sua malattia, ai suoi problemi di lavoro. La sua comunità diffidava di lui, eppure nessuno si è preso la briga di interessarsi a ciò che gli accadeva? Quale malattia abbiamo importato dalla società americana, la più sottosviluppata del mondo, quella in cui la violenza è endemica e la popolazione carceraria supera di gran lunga gli abitanti delle nostre più affollate città?
Forse siamo arrivati anche noi al capolinea della modernità, nel regno millenario dell'individualismo sfrenato, delle soluzioni personali e spessissimo violente ai problemi collettivi. Forse abbiamo contratto anche noi il subdolo virus mutante della violenza diffusa, serpeggiante, che ci aspetta in un agguato. Così, alla fine del nostro percorso lungo la strada del progresso, ci ritroviamo tutti soli in mezzo alla massa, in preda a un disagio che non sappiamo nominare, bruciati da una ferita, dalla mancanza di un destino o di un progetto collettivo, privi della possibilità di dire noi, annichiliti di fronte a una società che ci condanna a essere soltanto individui, soli anche contro la nostra volontà e il nostro desiderio.
E allora qualcuno fra i più deboli, fra i più disperati, prende una calibro 9 e una calibro 22, sale le scale del municipio di Acicastello e spara. All'impazzata.
Bruno arpaia IL SECOLO XIX 03/05/2003
|
MOTORI
DI RICERCA | UFFICIO
INFORMAZIONI | LA
POSTA | CHAT
| SMS
gratis | LINK
TO LINK!
|
LA CAPITANERIA DEL PORTO | Mailing
List | Forum | Newsletter | Il
libro degli ospiti | ARCHIVIO
| LA
POESIA DEL FARO|