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Bruno Arpaia

Chi ha paura del gay cattivo?

Primi di maggio del '74: dello scorso secolo. Il senatore Amintore Fanfani, a quei tempi segretario della Democrazia Cristiana, cominciò in Sicilia la campagna per il referendum sul divorzio. A Enna, partì lancia in resta: sostenne convintissimo che, con il divorzio, si stava mettendo in discussione la famiglia, “cellula di base, strumento di progresso, fecondatrice della terra, culla della santità più fervida”. Tre giorni dopo, a Caltanissetta, davanti a una platea di contadini siciliani con la còppola, si spinse un po' più oltre: “Se passerà il divorzio”, profetizzò furente, “sarà possibile perfino il matrimonio tra omosessuali, e forse vostra moglie vi lascerà per scappar via con qualche ragazzina”. Disse proprio così, e gli andarono dietro i neofascisti, i vescovi, i Comitati civici, l'Italia più beghina. Fortuna cha maggioranza degli italiani non lo seguì. I divorzisti vinsero con il 60% dei voti.

Da allora, l'acqua delle libertà e dei diritti civili è passata sotto molti ponti ed è diventata un lungo fiume che avanza implacabile. Quasi nessun politico, oggi, potrebbe adottare impunemente i toni del Fanfani di trent'anni fa. Si troverebbe di fronte, come rivela l'ultima ricerca Eurispes, un Paese in cui l'omosessualità non è più considerata un tabù, una perversione o una malattia. Secondo lo studio, infatti, quasi la metà degli intervistati ritiene che essere gay o lesbiche sia una forma d'amore, come l'eterosessualità, e la percentuale sale se a rispondere sono i più giovani, le donne, le persone con un titolo di studio superiore e quelle orientate politicamente a sinistra.

Nulla di strano, nulla che non si possa intuire “a naso”. Solo che fa piacere vederlo confermato da un'inchiesta. E fa piacere anche vedere smentito un altro diffusissimo luogo comune: non è al Sud che si annidano i più omofobi, ma nel Centro Italia. Ma se poi all'improvviso un figlio o una figlia confessassero di essere omosessuali? Niente paura: il 59,9 per cento del campione dice che, dopo un primo momento di sorpresa, reagirebbe positivamente. Tutto bene, dunque? Siamo un Paese sessualmente avanzato? Calma. C'è sempre da tenere in considerazione quel 32,8 per cento di italiani che affermano di poter tollerare l'omosessualità, ma solo a patto che non venga praticata. Non sembra che si tratti di reale accettazione, o no? E quel 10,3 per cento del campione che considera l'omosessualità “immorale”? Vi sembrano pochi sei milioni di nostri cittadini a cui ripugna l'omosessualità tout court?

Ma la ricerca Eurispes ricorda anche uno studio della Cgil, secondo cui la condizione dell'omosessualità è addirittura peggiorata perché la nuova flessibilità del mondo del lavoro rende i gay più ricattabili. Per loro, inoltre, non ci sono né ferie matrimoniali né assenze giustificate per motivi di famiglia. E qui, forse, è la legislazione a essere in ritardo rispetto alla società civile, perché più della metà degli intervistati si è dichiarata favorevole ai matrimoni con rito civile fra omosessuali. Insomma, da quel lontano maggio del 1974, si è fatta molta strada. Ma resta ancora da percorrerne un bel tratto. E' una strada che porta dritti in Europa, perché anche l'Italia, da quest'anno, dovrà applicare una direttiva comunitaria per la lotta alla diverse forme di discriminazione fondate sulla religione e le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. Una lotta da sostenere con forza. A patto che vada di pari passo con quella contro il politically correct, contro i tabù che gravano su certe parole (come se fossero loro le colpevoli), contro le ubbie che impediscono di chiamare zoppo un zoppo e che mi hanno fatto fare i salti mortali lungo tutto quest'articolo per usare, senza ripetermi troppo, solo termini “sdoganati” e con tanto di passaporto. Vi giuro, una fatica.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 06/06/2003

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