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Sciagurato legame con l'integralismo |
Nel novembre del 1936, assediata e bombardata dai franchisti, Madrid aveva ancora la forza di sorridere con piombo nelle viscere, come scriveva in una sua poesia Antonio Machado. Oggi la capitale spagnola ha troppa dinamite in corpo per sorridere. E tuttavia riesce a reagire con dignità, con solidarietà, senza invocare leggi eccezionali né la sospensione dello stato di diritto, che sarebbero un rimedio molto peggiore del male. La Spagna sta dimostrando al mondo di essere una democrazia salda e matura, che nemmeno l'orrore puro di quei corpi lacerati nella stazione di Atocha riesce a incrinare. Merito della società civile, di una storia secolare impregnata di una cultura diffusa e profonda, piuttosto che semplicemente di un governo o di una classe dirigente dotata di un forte senso dello Stato, come si è troppo spesso ripetuto in Italia nei giorni precedenti al massacro. Le esplosioni di giovedì scorso e il terribile silenzio che ne è seguito hanno raggelato una nazione a pochi giorni da un'importante prova elettorale. Alle sette e trentotto dell'altro ieri, la Spagna era un Paese anticonformista, disinibito, pieno di voglia di vivere. Le sue radici meticce, la sua effervescenza culturale lo preservavano dall'imboccare la china del tramonto dell'Occidente. Eppure, allo stesso tempo, non era tutto oro quel che luccicava sotto le immagini patinate del miracolo spagnolo, propagandate, in Italia e altrove, da commentatori quanto meno frettolosi.
Discutibili erano, infatti, lo stile di governo di Aznar, grigio e autoritario, nonché il suo modello economico, che, pur avendo conseguito risultati apprezzabili, lasciava il Paese arretratissimo sul piano dei salari (molto inferiori alla media europea) e su quello della disoccupazione, perché, nel computo dei nuovi posti di lavoro, il Partido popular includeva anche quelli precari e saltuari. Inoltre, come è stato giustamente rilevato, anche la forte crescita del Pil dipendeva quasi per la metà da trasferimenti dell'Unione europea.
Ma la Spagna non era la nazione più trendy d'Europa nemmeno sul piano costituzionale e civile. Lì, la mitica devolution era già avvenuta, e i risultati per nulla incoraggianti. A quasi trent'anni anni dalla fine del franchismo, si faticava a tenere a bada le tensioni nazionalistiche, le spinte centrifughe, i nuovi e aggressivi centralismi regionali. Invece di procedere verso la convivenza e l'armonizzazione nel rispetto delle diverse culture spagnole, si era ormai arrivati allo scontro. Gli attriti fra i vari settori della società si erano fatti sempre più aspri, e il fossato fra chi sentiva di appartenere all'una o all'altra comunità era diventato profondissimo, scatenando localismi, appartenenze rimosse, intolleranze sopite, e perfino una certa quota di razzismo interno. Andavi in giro per Barcellona o Bilbao e sentivi pronunciare la parola Madrid con lo stesso odio o con lo stesso disprezzo con cui qualche leghista nostrano parla di Roma. Solo che lì c'era anche l'Eta, c'erano bombe e morti. E c'era il paradosso tragico secondo il quale, come ha scritto ieri sul País Antonio Muñoz Molina, veniva considerato progressista il nazionalismo etnico e tribale, e reazionaria la difesa della Costituzione e delle libertà civili.
Già, perché, nonostante gli equivoci in cui certa sinistra europea ancora cade, l'ideologia espressa dall'Eta e da gran parte del nazionalismo basco è, senza troppi giri di parole, un'ideologia nazionalsocialista, fondata su una presunta purezza genetica e superiorità razziale dei baschi, su una sfilza di leggende derivate da una storia mai esistita, immaginata solo sul finire dell'Ottocento da un simil-Bossi locale di nome Sabino Arana, che inventò a tavolino il nome della propria terra, un inno, una bandiera, un partito e perfino un movimento simile ai Wandervögel tedeschi. Non senza lanciare proclami sull'inferiorità delle donne e allarmi contro i rischi di contaminazione della propria razza. Per questo io soffro a vedere sventolare le ikurriñas, le bandiere basche, quelle inventate a tavolino dal signor Arana, nei colorati cortei del popolo di Seattle. Per questo, sbaglierò, ma nessuno mi toglie dalla testa che ormai esista un legame tra un'Eta sempre più costretta alla difensiva e i terroristi islamici. A saper leggere fra le righe, la stessa dichiarazione di Arnaldo Otegi, il portavoce di Batasuna, il partito legato all'Eta e messo fuorilegge da Aznar, potrebbe confermarlo. Otegi, che non ha mai condannato un solo attentato dell'Eta, nello smentire la responsabilità dei terroristi baschi, ha indirizzato i sospetti verso la resistenza araba. Capite? Resistenza. C'è da rabbrividire.
Oggi, a due giorni da quelle esplosioni, la Spagna è un Paese ferito, a lutto, ma è ancora vitale e dinamico come alle sette e trentotto di giovedì scorso. E tuttavia domani andrà alle urne portando sulle spalle il peso del più feroce attentato degli ultimi cinquant'anni di storia europea. Sia stata o non sia stata l'Eta (come il governo, per evidenti fini elettorali, preferisce dichiarare), ci sia stato o meno lo zampino di Al Qaida, intenzionata a far pagare ad Aznar il suo supino vassallaggio agli Stati Uniti di Bush, gli spagnoli sceglieranno liberamente i loro rappresentanti. Pensino bene, prima di mettere nell'urna quella scheda, perché sarà tutta l'Europa a recarsi ai seggi insieme a loro. Stavolta, ancora più del solito, quelle elezioni ci riguardano da vicino. Stavolta siamo davvero tutti spagnoli. Stavolta, come in quel lontano 1936, la campana suona drammaticamente anche per noi.
Bruno Arpaia IL SECOLO XIX 13/03/2004
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