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Bruno Arpaia

Pablo Neruda, anche un genio sbaglia


Ha scritto nel '32: «Se il passo più grande della morte è il nascere, il passo più insignificante della vita è il morire»
Impetuoso e incostante, ha lasciato 3000 pagine.
Va calato dal piedistallo per carpirne la grandezza
Le opere complete di Neruda, al secolo Ricardo Neftalí Reyes Basoalto, sono in pubblicazione da Passigli e da Guanda. Prima dell'esilio, il poeta è stato anche senatore per il partito comunista

Cento anni fa nasceva a Parral, in Cile, il cantore dell'amore e dell'impegno politico che vinse il premio Nobel nel '71
Potenza visionaria e proclami ideologici, versi immortali e retorica: ma fu un vate del '900


I versi più appassionati, lievi, meditabondi, intimi, epici e potenti del XX secolo; ma anche quelli più sentenziosi, immobili, retorici, agiografici. Neruda va preso così com'è: impetuoso e disuguale, simile a un fiume sudamericano, a volte limpido e imponente, altre fangoso e monotono. Perché, fra le tremila pagine della sua torrenziale opera completa, se ne possono scovare facilmente due o trecento che bastano, nonostante tutto, a collocarlo fra i grandi, a decidere che sì, quel Nobel vinto nel 1971 dopotutto era meritato, anche se gli fu concesso quando la sua vena migliore si era esaurita.
Oggi, a un secolo esatto da quel 12 luglio del 1904 in cui a Parral, nel sud del Cile, nacque Ricardo Neftalí Reyes Basoalto, che il mondo intero avrebbe conosciuto sotto il nome di Pablo Neruda, si può forse tentare un bilancio pacato della sua eredità poetica, lasciando da parte le leggende e i malintesi fioriti intorno al personaggio e alla sua vita intensissima, alle sue storie d'amore e ai soggiorni capresi, alle adesioni a discutibili ideologie e alla prosopopea del suo io spesso eccessivo e strabordante.
Approfittando del fatto che la casa editrice Passigli sta pubblicando o ripubblicando le sue opere quasi complete, incluse quelle postume, e che da Guanda sono appena uscite le prose di Per nascere son nato, forse varrà la pena seguire i passi di quel diciassettenne che, sbarcato a Santiago «impregnato di nebbia e di pioggia», pubblicò giovanissimo Crepuscolario e Venti poesie d'amore e una canzone disperata. Erano versi che, sebbene ispirati ai francesi, a Rubén Darío e a Leopoldo Lugones, lasciavano appena intuirli. Era una poesia nuova, già matura.
In un lampo, quel ragazzino solitario e malinconico divenne il poeta più popolare del Cile. Quando, nel 1932, tornò dai suoi viaggi e dagli incarichi consolari in Asia, vennero i primi due volumi di Residenza sulla terra. Stavolta il linguaggio di Neruda, le sue metafore impetuose ma allo stesso tempo spontanee e naturali, si srotolavano in un continuo corpo a corpo con la morte, alimentato dalla sua sensibilità barocca e dalla prossimità con l'amato Quevedo. «A me», avrebbe scritto Neruda anni dopo, «Quevedo ha lasciato un insegnamento chiaro e biologico. Se siamo già morti, se veniamo dalla crisi profonda, perderemo ogni paura di morire. Se il passo più grande della morte è il nascere, il passo più insignificante della vita è il morire».
Furono quei due volumi a farlo diventare un vate, una specie di icona della poesia mondiale, più di qualunque altro poeta della sua generazione, quella nata a cavallo fra Otto e Novecento. Ma per lui, dopo il periodo sentimentale delle Venti poesie d'amore, dopo l'angosciosa oscurità e il «patetismo doloroso» di Residenza sulla terra, era finita una tappa: «Avevo camminato abbastanza sul terreno dell'irrazionale e del negativo. Dovevo fermarmi a cercare la strada dell'umanesimo, esiliato dalla letteratura contemporanea».
Così, dalla terza Residenza in avanti, si cammina nel sangue della guerra civile spagnola, si avvertono le frequentazioni con Lorca, Hernández e Aleixandre, si respira a pieni polmoni l'impegno politico e civile che lo porterà a diventare senatore per il partito comunista e poi all'esilio. E comincia a cascare l'asino, perché sempre più nei suoi versi si alternano pianure e montagne, vette di poesia e sterminate pianure in cui la poesia è scomparsa. Sarà così anche per la sua opera più ambiziosa, il Canto generale, del 1950, dove anzi questa sproporzione è più evidente, dove l'agiografia di Stalin che non dorme per vegliare sulla Patria è a contatto di gomito con l'impetuoso racconto della nascita di un continente, con la profonda ed epica penetrazione nella materia e nei minerali, con l'accento grandioso delle Alture di Macchu Picchu, con una forza che colpisce in pieno petto, che ti tocca senza mediazioni.
Grande poesia e retorica trombonesca, intensità lirica e prosa malamente versificata, potenza visionaria e proclami ideologici: il suo destino è segnato. Da L'uva e il vento ai Versi del capitano, dalla poesia programmaticamente «senza purezza» delle Odi elementari alle otto raccolte predisposte per la pubblicazione dall'autore stesso in occasione del suo settantesimo compleanno e apparse postume, verrà una poesia soddisfatta e di ordinaria medietà, accesa e riscattata però, di tanto in tanto, dalle zampate del ricordo, dal fremito erotico, adesso più maturo e saggio, dai limpidi fulgori della natura. E tuttavia, anche se abbiamo tanto parlato delle tappe della sua produzione, non bisogna dimenticare l'unitarietà del percorso nerudiano. Ci sono, nei suoi versi, da quelli giovanili a quelli maturi, diverse dosi degli stessi ingredienti. A volte la ricetta produce una pietanza sublime e tellurica, altre volte la pasta non lievita o il sapore è rancido.
In poesia come in cucina, si sa, basta poco per sbagliare. Neruda sbagliò molto, ma quello che gli riuscì fu tanto, fu di più. E allora, nel suo caso, l'errore da evitare è quello denunciato da Julio Cortázar in un articolo scritto in morte del poeta cileno, nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe di Pinochet. «Più volte», scriveva Cortázar, «nel vortice della quasi impensabile accelerazione storica del secolo, ho avvertito dolorosamente che l'immagine universale di Neruda era per molti un'immagine manichea, una statua che gli occhi delle nuove generazioni guardavano con quel rispetto misto a indifferenza che sembra essere il destino di ogni pezzo di bronzo sistemato in una piazza». Bisogna calarlo dal piedistallo, Neruda. Glielo si deve. E allora ci accorgeremo che, nonostante tutto, sul suo capo si è posata l'impronta inequivocabile della grandezza.


Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 11/07/2004

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