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Bruno Arpaia

Vita spericolata di Fischer fuggiasco degli scacchi


Adesso tutti parlano di Bobby Fischer. E a ragione, perché sono sempre affascinanti le storie degli uomini che spendono la propria vita camminando sull'esile filo tra genio e follia. Su quel filo Fischer sta danzando da anni, almeno da quando, non ancora quattordicenne, divenne il più giovane campione Usa di scacchi. Fu però nell'estate del 1972 che il mondo imparò a conoscere i suoi spettacolari funambolismi su quella corda tesa, le sue bizze, i suoi colpi di scena, ma anche il suo indiscutibile genio. Fu allora, a Reykjavik, che la Guerra fredda si trasferì sulle sessantaquattro caselle di una scacchiera, che l'imprevedibile Fischer sfidò Boris Spasskij, il rappresentante della scuola sovietica che aveva fino a quel momento dominato il gioco degli scacchi.

America contro Urss, mondo libero contro comunismo, individualità e creatività contro burocrazia e collettivismo. Fischer si presentò in ritardo di giorni, aspettò che Henry Kissinger in persona gli telefonasse per convincerlo a non abbandonare la partita, pretese che gli fosse portata dagli Stati Uniti la sua poltrona, che si giocasse in una specie di guardaroba lontani dal ronzio delle telecamere che lo infastidiva. Vinse, alla fine, perché era il più geniale, il più innovatore, il più grande. Fragile come solo i grandi sanno essere. E infatti, tre anni dopo, rinunciò al titolo di campione del mondo perché non accettò le semplici condizioni per la sfida contro Karpov. Da allora, Fischer sparì nel nulla, un nulla profondo da cui riemergeva di tanto in tanto quasi clandestinamente. Poi, nel 1992, dopo vent'anni vissuti in miseria come un eremita, si materializzò nella Serbia di Milosevic per battersi di nuovo, in una sfida dal sapore cinematografico, contro Boris Spasskij. Rivinse, e guadagnò tre milioni e mezzo di dollari. Ma intanto quel suo danzare sul filo pendeva sempre più dalla parte della follia, delle fobie e delle manie di persecuzione. Lui, figlio di un'ebrea, era diventato ferocemente antisemita e accusava i governanti Usa di essere burattini di un complotto giudaico. È chiaro che gli americani non potevano perdonare il loro ex ragazzo prodigio, il loro campione della Guerra fredda che li aveva traditi così platealmente. Il governo lo accusò di aver violato l'embargo contro la Serbia e spiccò contro di lui un mandato di cattura internazionale. Da latitante, sfuggendo ai poliziotti e ai fans, vivendo clandestinamente nelle Filippine o in Ungheria, Fischer ripiombò in altri lunghi anni di buio, da cui riemerse solo l'11 settembre del 2001 con una scioccante dichiarazione a una radio filippina sull'attentato alle Torri gemelle: “È una notizia meravigliosa. È ora di farla finita con gli Stati Uniti una volta per tutte”. Un mese fa, infine, Bobby Fischer è stato arrestato all'aeroporto di Narita, in Giappone, perché non in regola con il passaporto, revocatogli dal governo statunitense. Rischia l'estradizione e cerca a tutti i costi di sfuggirvi, chiedendo asilo a Paesi terzi o annunciando di voler di sposare la sua compagna giapponese, Miyoko Watai. Su Internet, intanto, i siti antisemiti e quelli di numerose sette religiose sparse ai quattro angoli della terra lanciano appelli per la sua liberazione. Adesso, insomma, tutti parlano di nuovo di lui, della sua danza su quel filo, sempre più spericolata, sempre più folle, forse sempre meno geniale. È giusto, perché in fondo su quello stesso filo ci camminiamo tutti, perché la sua storia, seppure così estrema, ci riguarda. Lo sa benissimo perfino il suo antico rivale, Boris Spasskij, che di quella storia si sente parte integrante. D'accordo: quello di Spasskij è un destino da "spalla", da sconfitto. Eppure a quel destino lui è legato, come se il genio di Robert James Fischer lo avesse folgorato dal primo istante e per sempre, a dispetto della sua follia. Già a Reykjavik, infatti, Spasskij rinunciò a farsi assegnare partita vinta a tavolino perché il suo avversario non si era presentato. “Non c'è gusto a vincere così», disse. E fu proprio lui, vent'anni dopo, a organizzare l'incontro di Belgrado: era stato l'unico a non aver dimenticato il genio folle che lo aveva sconfitto in Islanda, perciò accettò di recitare ancora una volta la parte del perdente per salvarlo. Adesso Boris Spasskij, diventato cittadino francese, ha scritto a George W. Bush per supplicarlo di essere clemente con il suo vecchio avversario, che descrive come una «personalità tragica”. “Non voglio difenderlo o giustificarlo», dice la sua lettera. «Fischer è quel che è. Per lui chiedo solo pietà”. Del resto, aggiunge Spasskij, abbiamo commesso lo stesso delitto, abbiamo giocato la stessa partita in Yugoslavia: “Arrestate anche me. Mettetemi nella stessa cella di Bobby Fischer. E dateci una scacchiera”. Magari, in quella cella, Spasskij perderà di nuovo, ma intanto, con le sue parole, si è scrollato di dosso il destino. Sconfitto o no, è diventato il vero eroe di questa triste storia.


Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX – 17/08/2004

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