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Bruno Arpaia

IL SECOLO XIX –
14/09/2001

Alle radici dell'odio



C'è chi ha saputo ragionare a caldo sull'attacco alle Twin Towers, chi è stato in grado di trovare le parole giuste per raccontare il terrore su scala planetaria. Io no: sono rimasto due giorni davanti alla televisione. Non me ne pento, e nemmeno mi sento inadeguato.

Chi scrive per passione o per mestiere deve credere per forza alle parole, ma proprio perché ne ha grande stima sa anche che, quando non vengono, quando qualcosa le annichila o cancella, è meglio stare zitto, è meglio non aggiungere frastuono al rumore terribile del mondo. Eppure stando là, seduto sul divano a contemplare, come in un déjà-vu di tanti film, le rovine di Manhattan distrutta dagli alieni, in qualche modo oscuro sentivo di cadere nella trappola dei terroristi kamikaze. Chi ha concepito l'attentato, infatti, ha pensato momento in tutto il globo, come scrivendo una sceneggiatura in cui la suspense cresce con effetti studiati, seguendo un millimetrico copione: prima, a breve distanza, le due torri, poi, un'ora dopo, il cuore operativo del sistema, il Pentagono, Camp David, La Casa Bianca, o forse proprio l'Air Force One. L'ha scritto benissimo Baricco: “E' come se qualcuno ci avesse portato via la realtà; è come se ci informasse che non ci sono più due cose, la realtà e la finzione, ma una, la realtà, che ormai può accedere soltanto nei modi dell'altra, la finzione; e non solo per scherzo, ma anche nelle curve più reali, atroci, clamorose e solenni dell'accadere”.

Ma c'è dell'altro che voglio confessare, qualcosa di terribile, di osceno: quelle immagini “perfette” mi stregavano, anche se la fascinazione aveva un cuore ripugnante e orrendo. E' stato in questo modo che gli alieni, una cui parte ce la portiamo dentro, avevano già vinto. Dopo, per liberarsi dal maleficio, c'era solo la strada della “compassione”, il tentativo di indossare i panni delle vittime, di toglierle dal limbo di una cifra smisurata e senza forma e farle diventare persone in carne e ossa: pensare a loro, essere i loro corpi e le loro sensazioni; essere quel signore che sventolava una bandiera bianca da una finestra in fiamme e si buttava giù a capofitto, la donna con i brandelli di pelle che le cascavano dal volto, il soccorritore che andava inconsapevolmente incontro alla morte salendo le scale della seconda torre, l'uomo che ha telefonato a sua moglie e le ha detto: “Ti amo, sto morendo”, i passeggeri del volo numero 93 della United che, dopo una votazione, hanno provato a fermare i terroristi e forse hanno salvato la Casa Bianca.

Ecco, soltanto allora sono stato capace di sottrarmi all'incantesimo. Pensare, però, è un altro paio di maniche. Adesso come adesso, so soltanto che il Novecento non si era chiuso, come qualcuno frettolosamente aveva detto, con la caduta del Muro di Berlino. Finisce ora, l'11 settembre del 2001, mentre New York, la capitale del secolo XX, è in ginocchio. Ed è adesso che il XXI secolo è iniziato per davvero. Inizio spaventoso, come un presagio infausto di una vita blindata, di un incubo fatto di vigilantes e di armi, di città svuotate dal coprifuoco. Inizio crudele, con una guerra, senza uno straccio di codice d'onore e la società intera come obiettivo da colpire.

“Niente sarà più come prima”, sento ripetere. Io lo soltanto che forse i nostri figli non meritavano di ereditare un mondo così orribile. “E' stato un attacco alla civiltà”, leggo un po' dappertutto. Eppure io mi ostino a cedere che quegli aerei lanciati contro il World Trade Center costituiscano un attentato alle civiltà (plurale): la nostra, l'indiana, la cinese, l'araba o la bantù. Che senso avrebbe, per noi occidentali, cadere nell'errore di credere gli unici depositari delle Verità, i custodi del Graal in guerra contro il resto del mondo, identificato tout court con la barbarie?

Il presidente Bush ha detto che adesso si scatenerà la lotta del bene contro il male. Forse è sconvolto, ma avrebbe dovuto ugualmente riflettere sul fatto di aver usato le stesse, identiche parole con cui gli attentatori giustificano la loro follia. Sulle sue spalle, non certo solidissime, mai come oggi pesa una responsabilità tremenda. Bisogna colpire i responsabili: è poco, ma è sicuro. Eppure non è il tempo di vendette cieche, e nemmeno di semplici cacce ai colpevoli che farebbero riprodurre inesorabilmente il terrorismo come un Digimon. Bisogna fare di più e di meglio, cercando di non trasformare l'Europa e l'America in una fortezza assediata, le nostre vite in quelle di eterni ostaggi della paura e dell'insicurezza planetaria. Però, per farlo, bisogna prima impegnarsi a rispondere alla domanda dello scrittore Tahar Ben Jelloun: “Da dove viene questo odio contro l'occidente?”. È una domanda dura, radicale, che ci riguarda tutti, che ci obbliga a scavare nelle nostre colpe, senza dimenticare quelle altrui. E se abbiamo commesso qualche errore, sarà meglio ammetterlo. Adesso. Prima che sia davvero troppo tardi.

Bruno Arpaia – IL SECOLO XIX - 14/09/2001

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