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LA REPUBBLICA 14/09/2001 |
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Quando il conflitto non ha più confini |
TUTTI a dire: siamo in guerra.
Sarà. Ma certo è una guerra strana. A me colpisce una
cosa: è una guerra senza confini. Non nel senso che è
dappertutto: nel senso che, fisicamente, non ci sono confini da
difendere, o da attaccare, o dove mandare le truppe, o da
fortificare. Togliete al concetto di guerra il concetto di confine e
vi trovate tra le mani poco più di un nome che significa poco,
forse niente. Sono mai esistite guerre senza confini? Quando proprio
due nemici non avevano la possibilità di avere un confine in
comune dove scannarsi, se lo andavano a cercare: Vietnam, per dire.
Ma dove sono i confini di questa guerra, dov'è la prima linea,
dov'è attestato il nemico? Il fatto che non ci sia un risposta
certa, dovrebbe far pensare: è un anomalia che ha qualcosa da
insegnarci. Vorrei provare a semplificare. Dove cade l'idea di
confine, cade l'idea che il nemico sia altro da te.
Se non
c'è un confine tra te e lui, tu e lui siete, in qualche modo,
la stessa cosa. Il nemico è dentro di te. Psicologicamente, e
non solo, è una prospettiva terrificante.
E infatti,
nonostante la palese assenza di confini, anche in questa guerra tutto
il pianeta sta cedendo all'istinito di andarli a cercare: si
incomincia con l'identificare il nemico in Bin Laden, ma poichè
il terrorismo è per sua costituzione nomade e non offre
confini stabili, si va al di là tracciando un'immaginaria
linea tra mondo islamico e mondo occidentale che sarebbe uno
splendido confine se non fosse che, appunto, è immaginario: è
una linea che separa due civiltà, d'accordo, ma fa acqua da
tutte le parti e non è certo un compatto, lineare fronte di
guerra. Così, abbastanza comicamente, si finisce per guardare
all'Afghanistan e al Pakistan con la speranza di trovare almeno lì
la nettezza di confini, la pulizia di Stati limpidamente nemici, la
vecchia rassicurante realtà di frontiere da attaccare o al di
là delle quali bombardare qualcosa.
Si guarda da quella
parte perché gli indizi portano lì, ma anche perché
da quella parte troviamo la guerra come la conosciamo, come abbiamo
imparato a combatterla, come la possiamo sopportare. L'alternativa,
quella sì, sarebbe vertiginosamente terrificante: non ci sono
confini, il nemico non è più davanti a noi, ma dentro.
E' quell'alternativa che, a ragione, ci rifiutiamo di prendere in
esame. Ed è paradossale: perché, a rigor di logica,
quella alternativa disegna la possibilità più
verosimile.
Provo a spiegare. Sarà un'osservazione banale,
ma se uno pensa agli anni dalla seconda guerra mondiale a oggi e
ricorda i diversi scontri tra l'Occidente e l'impero del male di
turno, non può non notare come, fisicamente, i chilometri di
confine coinvolti in quelle guerre, si riducano progressivamente fino
all'assurdo: dai fronti della Seconda Guerra ai pochi chilometri di
fronte israelianopalestinese, passando per la Corea, il Vietnam,
l'Iraq e la Serbia, quello a cui si assiste è un restringersi
vertiginoso degli spazi fisici in cui l'Occidente è riuscito a
trovare un confine in cui combattere.
La cosa non è
casuale. Deriva da una scelta tattica ben nota: quella, praticata in
quei decenni, di metabolizzare il nemico piuttosto che schiantarlo,
di comprarlo invece che distruggerlo, di invischiarlo nel propri
mercati al posto di distruggerlo. Decenni di una simile tattica
(alcuni la chiamano globalizzazione), perseguita con genio e
inossidabile costanza, hanno in effetti ottenuto di togliere al
nemico la terra sotto ai piedi, riducendo drasticamente i confini a
rischio: oggi, di fatto, la parte del pianeta che può dirsi
realmente indipendente dai soldi dell'Occidente, e che quindi
potrebbe permettersi il lusso di diventarne un nemico, è
significativamente esigua: se poi si tolgono i Paesi sottosviluppati
(senza la forza di fare la guerra) e quelli in cui la resistenza è
legata alla mitomania di un despota (Gheddafi o Saddam), le parti di
pianeta realmente ostili si riducono al lumicino. Detto in termini
sintetici, l'Occidente è molto vicino ad essere tutto. Che
significa: confini, zero.
La guerra scoppiata l'11 settembre
sembra, con simbolica e accecante esattezza, l'apoteosi di questo
processo. Definitivo azzeramento dei confini e unanimità
pressoché globale nella condanna dell'attacco agli Usa. Fino a
pochi anni fa sarebbe stata fantascienza, ma adesso è il mondo
com'è, realmente, in questo momento. Un unico sistema,
indubbiamente molto fragile, ancora abbozzato, ma sterminato, che ha
quasi ridotto a zero l'altro da sé. Per un sistema come
quello, cosa può mai essere la guerra? Lo scontro con qualcosa
che viene da fuori? Difficile. E allora: il cedimento o la ribellione
di una parte di sé. Ciò che sarebbe logico pensare è:
il nemico è dentro al sistema, non fuori. Per quanto
sgradevole ci sembri, la cosa più logica sarebbe pensare: il
nemico è dentro. Cercatelo lì.
La sento già
la domanda: e allora chi è stato? Un lobbysta repubblicano, un
businessman asiatico rimasto fuori dal giro, un miliardario svedese
afflitto da crisi religiosa? Mi rendo conto che messa giù così
è grottesca. Ma ho una cosa da dire. Nel modo più
semplice: siamo proprio sicuri che Bin Laden sia definibile come
qualcosa di altro dall'Occidente? Da dove arrivano i suoi soldi?
Perché è miliardario? Con chi ha fatto affari per
diventarlo? Trovava oro in una valle segreta fuori dal mondo
globalizzato? Quanto denaro gli abbiamo messo in tasca? E quanto
denaro ci ha messo in tasca lui mettendolo in circolo nel sistema
sanguigno della ricchezza occidentale in tutti questi anni?
Provate
per un attimo a resettare tutto e immaginarlo così: un uomo
d'affari come tanti che a un certo punto però si rivolta
contro il sistema. Non è poi tanto inverosimile, no? Ci
rassicura pensarlo come un nemico che viene da fuori e basta. Ma se
lo pensiamo come una cellula del sistema, in tutto uguale alle altre,
che a un certo punto impazzisce e inizia a divorare l'organismo
dall'interno, non è che siamo poi così lontani dalla
realtà. Certo che non preme ai confini: scava da dentro. Si
inghiotte le Twin Towers: e lo può fare, perché lui è
qui, non è là fuori, è dentro, non al di là
di confini che non esistono più.
Posso sbagliarmi, ma a me
l'11 settembre sembra il crudele prototipo di quello che può
diventare il futuro. Non credo che sarà mai possibile
attribuire quell'attacco a qualcuno o qualcosa di integralmente altro
dall'attaccato. Penso che lì si sia inaugurata una nuova epoca
possibile, in cui guerra sarà sempre o per lo più
scontro tra il sistema e parti di sé che, fisiologicamente,
degenerano e sfuggono al suo controllo. Penso che vedere tutto il
mondo schierato al fianco degli americani non deve indurci a pensare
che il nemico è debole o isolato, ma che il nemico non verrà
mai più dalla parte da cui è sempre arrivato.
Penso
che l'ambizione a essere un pianeta unito e pacifico - meravigliosa
ambizione - non otterrà mai un mondo perfetto, ma un mondo in
cui la parola guerra significherà qualcosa a cui non siamo
abituati. Penso che i confini, spariti dalla superificie degli
atlanti, sopravviveranno nel tessuto del sistema, come linee che lo
attraverseranno verticalmente invece di disegnare, orizzontalmente,
sulla superficie della terra, le geometrie di una guerra. Penso che
Bin Laden, così come il ragazzo del Black blok che sfascia
vetrine con le Nike ai piedi, sta al di là del confine, ma di
un confine verticale, non più orizzontale, che non c'entra più
niente coi vecchi confini e che non siamo ancora capaci a leggere.
Penso che il sogno di diventare un unico Paese globale -
meraviglioso sogno - si realizzerà soltanto attraverso la
violenza, la sofferenza collettiva, e una sostanziale sospensione
della difesa dei più deboli e dei vinti: e penso che tutto
questo non sarà cancellato ma sopravviverà come ferita
destinata a infettare dall'interno il sistema, in una guerra
logorante che non siamo ancora capaci a combattere, ma che non sarà
meno inevitabile delle vecchie guerre che abbiamo combattuto per
secoli.
Penso che tutto questo assomiglia molto a una storia di
fantascienza. Ma ho visto un Boeing sventrare le mura di Manhattan. E
so che, da quel momento, immaginare il futuro è diventato un
gesto da compiere senza prudenza e senza vergogna.
Alessandro Baricco LA REPUBBLICA 14/09/01
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