Puntata
dedicata agli antiglobalizzatori, detti noglobal. Quelli che sono
scesi dal treno, quelli a cui il sogno della nuova frontiera
sembra un sogno di altri, e neanche troppo pulito. Pazzi o
profeti? Torniamo a Genova, e proviamo a partire da lì.
Perché si fa un G8? Perché otto famosissimi Capi di
Stato che protrebbero tranquillamente riunirsi in
videoconferenza, o trovarsi clandestinamente in una fattoria del
Connecticut, si mettono in vetrina costringendo un'intera città
a militarizzarsi? Forse perché sono scemi? No: perché
sono uno spot. Non sono lì a decidere qualcosa (potrebbero
farlo benissimo in altri modi), sono lì per farsi vedere.
Sono lì a fare i testimonial. Di che? Della
globalizzazione. Sono lì a dire che mezzo pianeta si muove
ormai come un unico Paese. Sono lì a testimoniare che il
West c'è, è vero, ed è già una figata
pazzesca. Sono lì perché così li vede il
piccolo industriale veneto che ha i suoi primi timidi commerci
con la Russia, e si convince che non deve aver paura a investire
laggiù; sono lì per dire davanti al pianeta che si
piacciono e non si faranno mai la guerra, e che quindi le
multinazionali possono andar tranquille, costruire, far girare
denaro, e aspettarsi milioni di volonterosi consumatori; sono lì
per attestare che sono ricchi, volenterosi e moderni, così
ai media sarà più difficile mantenere la lucidità
per capire se lo sono veramente; sono lì per comunicare
ottimismo, fiducia nel futuro, e unità di intenti:
lubrificanti senza i quali il motore della globalizzazione
finirebbe in pezzi. Sono lì per vendere il West: il sogno
del West. E i ragazzi in tuta bianca? Che ci facevano lì,
a Genova? Interrompevano lo spot. Pisciavano sul dépliant.
Stracciavano il grande manifesto. Non interrompevano la
globalizzazione: ne boicottavano la campagna pubblicitaria.
Istintivamente, miravano al cuore della faccenda. Sfilare a
Genova, davanti al grande spot, e non in Indonesia, davanti a una
fabbrica di scarpe Nike, non è solo più pratico:
colpisce la globalizzazione là dove è più
debole: nell'istante in cui vende se stessa alla gente. Sfasciare
tutti i McDonald's della terra è tremendamente faticoso:
ridicolizzare i testimonial che ce li vorrebbero far passare come
una fortuna, questo ha l'aria di essere più efficace.
Dunque: ecco una cosa da capire sui noglobal: prima ancora di
chiedersi cosa pensano del mondo globalizzato, quelli si
indignano per come ce lo stanno vendendo, e per la propensione
collettiva a bersi l'epopea di quel misterioso West senza farsi
troppe domande. Soprattutto i più giovani: sono noglobal
perché è un modo di provare ad avere un cervello
libero, indipendente, non ipnotizzato dalle grancasse del potere:
hanno voglia di uscire dal gregge, e di sbeffeggiare il pastore.
Poi magari non sanno nemmeno bene cos'è la
globalizzazione, o non ci hanno mai veramente ragionato su. Ma,
d'istinto, fanno casino. Che sia Vietnam o globalizzazione,
cambia poi poco: c'è sempre una fetta di umanità
che non ci sta, che si rivolta all'inerzia con cui la maggioranza
adotta gli slogan che qualcuno ha inventato per loro. Sono i
ribelli. Dovremmo condannarli, per la sola ragione che non
saprebbero sostenere un dibattito sulla globalizzazione? Non
credo. Piuttosto dovremmo difenderli dall'estinzione: sono la
nostra assicurazione contro tutti i fascismi. Sono il batticuore
che ci tiene svegli, nella notte del nostro buon senso. Dice: sì,
ma sulla globalizzazione hanno torto. Anche se fosse vero non
importa. La prossima volta avranno ragione, e sarà la
salvezza per tutti. Non pioveva il giorno in cui Noè si
mise a costruire l'Arca. C'era un sole che spaccava le
pietre. Detto questo, è doveroso aggiungere: non sono
tutti ribelli e basta. Ce n'è un sacco che sanno di cosa
parlano, credono sinceramente che la globalizzazione sia una
pessima idea, e pensano di conoscere bene i guasti che può
provocare, o che addirittura già provoca. Molti e
autorevoli commentatori li bollano come irresponsabili che
rischiano di fermare un processo destinato a produrre ricchezza
collettiva, progresso e pace. Possibile che abbiano
ragione? Magari un po' confusamente, e ognuno seguendo i temi
che più gli stanno a cuore, i noglobal portano in
superficie un tratto effettivo, mi verrebbe da dire storico,
della globalizzazione: essa non è solo un ampliamento del
campo da gioco, ma anche un cambiamento delle regole del gioco.
Detto più semplicemente possibile: il mondo globalizzato è
un paradiso che si riesce a costruire solo sospendendo una parte
consistente delle regole fin qui rispettate. Un buon indizio è
il trionfo delle cosiddette "zone franche": pezzi di
mondo in cui è possibile produrre e commerciare con una
pressione fiscale minima, con insignificanti controlli sindacali,
con nessun problema di tutela dell'ambiente: cioè quasi
senza regole. Non a caso è lì che le multinazionali
(e non solo loro) sono andate a cercare l'ossigeno necessario per
realizzare la globalizzazione. Oggi, in quelle zone, lavorano 27
milioni di persone. Un'enormità. Poiché spesso sono
lontane dall'Occidente, danno soprattutto l'allegra impressione
di un'economia che si globalizza: ma è indispensabile
ricordarsi che esse stanno lì a suggerire qualcosa di più
scomodo: la globalizzazione accade dove è possibile
giocare duro. Non è un caso, d'altronde, che il progetto
della globalizzazione sia nato proprio quando nell'Occidente si è
iniziato a inclinare verso una deregulation generalizzata che
lasciasse la mani libere agli investitori. Da Reagan e Thatcher
fino a Blair e Schroeder, l'idea che si è affermata è
che se si vuole moltiplicare il denaro bisogna cinicamente
concedergli di circolare in libertà, senza asfissiarlo con
troppe regole. L'idea, per quanto possa sembrare cervellotica, è
che il miglior modo di aiutare i poveri è aiutare i ricchi
a moltiplicare il denaro: qualcosa finirà in tasca anche
ai poveri. Vera o falsa che sia, quell'idea rappresenta il
puntello ideologico indispensabile per qualsiasi globalizzazione.
E' il prezzo da pagare per l'ingresso al Paradiso. Se cerco
un'espressione, semplice e brutale, per nominare cosa tiene
insieme un sistema del genere, quasi privo di regole, mi viene in
mente: la legge del più forte. Lo scrivo senza prudenze,
perché ne sono convinto: chi vende oggi la globalizzazione
chiede in cambio una libertà d'azione che riconosce un
unico principio regolatore: la legge del più forte. La
globalizzazione ha bisogno di una competizione dura, radicale e
impietosa, ha bisogno di grandi profitti per fare grandi
investimenti, ha bisogno di selezione perché fa un gioco
duro e non può tirarsi dietro soggetti deboli. Puramente e
semplicemente: le serve un terreno di gioco dove l'unica regola
sia che il più forte vince. A costo di semplificare,
voglio dire che questo è l'esatto punto in cui i noglobal
scendono dal treno e rinunciano al West. Benché le loro
rivendicazioni siano tante e diverse, potete raccoglierle tutte
sotto un unico cappello: il rifiuto di un mondo regolato dalla
legge del più forte. Di volta in volta mettono nel mirino
singole tessere del paesaggio: lo sfruttamento dei lavoratori nei
paesi poveri, il divario vertiginoso tra ricchi e poveri, l'uso e
l'abuso dell'ingegneria genetica, la massificazione culturale, il
disprezzo per i diritti dei consumatori. A discuterle una per una
si diventerebbe vecchi: più utile sembra capire che sono
sintomi diversi di un'unica malattia: l'orientarsi del pianeta
verso una competizione con poche regole, dove quasi tutto è
permesso, dove il profitto è l'unico indicatore di forza,
e dove il più forte vince, tout court. E' quel mondo che i
noglobal, non sempre consapevolmente, tengono nel mirino.
Chiedervi se siete pro o contro la globalizzazione non significa
chiedervi se siete favorevoli ai cibi transgenici, o se vi piace
la Nike, o se vi fa paura la scomparsa dei dialetti, o se le
paghe dei cinesi che fanno le vostre scarpe vi sembrano giuste o
schifose. Significa chiedervi se, per abitare un mondo più
ricco, siete disposti ad abitare un mondo selettivo, competitivo,
duro, in cui vige sostanzialmente la legge del più forte,
e dove i vincitori vincono e gli sconfitti perdono. Tanto per
aiutare nella risposta, vorrei ricordare che una buona fetta del
secolo appena passato è stata dedicata a evitare un mondo
del genere. Mai come negli ultimi cent'anni si è cercato
esattamente un modo di convivere e arricchirsi senza essere
costretti ad arrendersi alla legge del più forte. In modo
eclatante e compiuto, lo hanno fatto due grandi progetti: il
socialismo reale e l'idea di Stato assistenziale. Adesso suonano
entrambe come bestemmie, ma in origine erano esattamente questo:
cercare un sistema che non bloccasse lo sviluppo, ma evitasse un
campo aperto dove il più forte schiacciava il più
debole e amen. Perché cercavano un simile obbiettivo?
Perché erano buoni? No. Perché erano scioccati.
Scioccati dalla vita disumana dell'operaio europeo di fine
ottocento, scioccati dalle famiglie americane sprofondate da un
giorno all'altro nella miseria da una crisi di Borsa
incomprensibile. Avevano capito che un mondo senza rete, senza
redistribuzione della ricchezza, senza tutela per i più
deboli, era un mondo che produceva inaudite sofferenze e,
oltretutto, ti si poteva rivoltare contro in un attimo: una
specie di centrifuga che tritava destini e che, se non reggevi il
ritmo necessario a rimanere in centro, ti espelleva velocemente
verso orbite di miseria da cui non ti tiravi più fuori.
Non erano buoni. Erano scioccati. Che ne è stato di
quello choc? Dimenticato? Perché suona progressista
predicare la liberalizzazione di tutto e tutti, quando in
sostanza non è che la restaurazione di un mondo come
quello che decenni fa abbiamo cercato di far fuori? Nessuno si
accorge che i reportages dalle fabbriche del terzo mondo
raccontano un orrore che è assurdamente identico a quello
che Zola raccontava in Germinale, parlando di minatori che
vivevano centotrenta anni fa? Come fanno le sinistre europee a
schierarsi al fianco della globalizzazione senza riflettere sui
risvolti crudeli che avrebbe per i deboli della terra? Possibile
che basti a convincerle l'obiezione che con cinquanta centesimi
di dollaro al giorno almeno si vive, mentre senza la fabbrica che
fa palloni neanche si campa, laggiù? (Era lo stesso per i
minatori di Zola: lo stesso paradosso logico: e 130 anni non sono
bastati a trovare una soluzione più degna?) Possibile che
ci vogliano due aerei lanciati ad azzerare le Twin Towers per
ricordare che la legge del più forte non è una
garanzia per nessuno, nemmeno per il più forte? Possibile.
Quel che accade è che gran parte dell'Occidente si sia
innamorato di un'idea (la globalizzazione) e regolarmente rimuova
il ricordo del prezzo che dovrebbe pagare per averla. Si può
anche capire. La globalizzazione, se reale, produce
effettivamente ricchezza, modernità, e pace:
obiettivamente ce n'è abbastanza per dimenticare quelli
che, con squisito eufemismo, alcuni hanno definito, nei giorni di
Genova, "degli inconvenienti". L'inconveniente è
che quel mondo <\-> più ricco, più moderno,
quasi completamente in pace sarebbe un campo aperto regolato
dalla legge del più forte. La domanda era: i noglobal
sono pazzi o profeti? Io so che chiariscono i termini della
decisione collettiva a cui siamo chiamati: e che ci mettono
davanti al panorama vero del nostro tempo, così diverso
dalla cartolina truccata che vendono negli empori del potere. Per
cui aiutano. E' chiaro però che la loro attendibilità
si gioca in un punto ben preciso: la capacità di formulare
un plausibile modello alternativo, capace di salvare i tratti
positivi della globalizzazione (la circolazione delle idee, la
fine dei nazionalismi, l'uso della pace come vettore economico)
senza obbligare a pagare prezzi altissimi in termini di
sofferenza e di barbarie sociale. Quel modello è
un'ingenua utopia? E' qualcosa di più di una cieca fiducia
nella possibilità di avere la botta piena e la moglie
ubriaca? Ammesso che una risposta sia già possibile, ad
essa proverò a dedicare il prossimo e ultimo articolo.
Alessandro
Baricco LA REPUBBLICA 26/10/2001
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