Immaginare una
globalizzazione che non ferisca a morte il pianeta: che sia
umana, prodotta "dal basso", civile e morale. Si può?
Io, sulla faccenda, non ho certezze da offrire. Posso giusto
avanzare un sospetto: la globalizzazione buona è fatta con
gli stessi mattoni della globalizzazione cattiva. Usati
diversamente, ma i mattoni sono quelli. Ciò che i noglobal
tendono a distruggere, sono spesso gli stessi materiali che ci
servirebbero per costruire una globalizzazione "buona".
Un moralismo un po' ottuso e una falsa intelligenza vittima dei
luoghi comuni spingono troppo spesso a demonizzare ciò che
invece andrebbe reinterpretato, e usato come materiale per sogni
migliori. Provo a spiegarmi con due esempi. Due spettri della
globalizzazione: lo strapotere dei brand, dei grandi loghi, e la
massificazione culturale. Due realtà su cui, non a torto,
si è concentrata la denuncia dei noglobal. Vediamo. I
brand. Nella polemica contro il loro potere si fondono due
critiche distinte: la prima è più circostanziata:
le grandi marche fanno affari sfruttando il lavoro dei Paesi
poveri. Come sempre, è meglio partire da una domanda
elementare: è vero? Devo sintetizzare, e così
abbozzo una risposta: sì, è vero, anche se una
certa propensione a non farsi troppe domande e a concludere
sbrigativamente le indagini è rilevabile in tutti i
tentativi di dare una descrizione dei fatti. La faccenda è
probabilmente più complessa di quanto piaccia pensare, ma
in definitiva non è errato affermare che molte
multinazionali producono enormi profitti anche in virtù
del fatto che le loro merci sono prodotte, nei Paesi più
poveri, a costi bassissimi, in certo modo illogici, e
probabilmente immorali. Seconda critica: i grandi brand si
sono impossessati dell'immaginario collettivo, lo gestiscono a
loro piacimento e trasformano gli individui in consumatori
lobotomizzati. Dato che nessuno gli sbarra la strada, la loro
presenza è ormai talmente invasiva da individuarli come il
vero Potere, assai più efficace, capillare e onnipresente
dei poteri politici, o religiosi, o civili. Com'è ovvio,
qui l'obbiezione suona più irrazionale ed evanescente. Ma,
va detto, non è campata per aria. Una bella ricostruzione
di tutta la faccenda la potete trovare effettivamente nel
fortunato libro di Naomi Klein, No logo: leggete le prime 200
pagine e vi farete un'idea. Abbastanza lucidamente vi si
raccontano i fatti, puri e semplici. Non tutto sarà vero o
ben compreso, ma se solo metà di quello che c'è lì
dentro fosse reale, ce ne sarebbe già abbastanza per
crederci. Ora: di fronte a fatti del genere l'istinto,
ovviamente, è quello di puntare i piedi e resistere. Muro
contro muro, e poi si vedrà. Ma quella che vorrei
suggerire è un'altra possibilità: prendere quei
fatti e guardarli da vicino, e provare a pensarli da capo. Ad
esempio: si potrebbe prendere sul serio la circostanza,
effettivamente curiosa, che, nonostante la diffusa avversione per
le multinazionali, la gran parte di noi se ne serve senza nessun
problema. Se non siete dei militanti noglobal, è probabile
che abbiate delle scarpe Nike o Adidas, che fumiate Marlboro o
Philip Morris, che portiate i vostri bambini a vedere i film
della Walt Disney, che mangiate da McDonald's e che in questo
momento abbiate addosso delle mutande Calvin Klein. Cerco di
dirlo in modo più esatto: è probabile che alla gran
parte di noi il mondo allestito sulla rete delle grandi marche
non sembri affatto un luogo inumano, ma al contrario, un mondo
vivo, in qualche modo ricco, e comunque interessante da abitare.
E' abbastanza normale che ci appaia come un mondo sostanzialmente
libero, una specie di giostra su cui saliamo quando vogliamo,
scendiamo quando vogliamo, saliamo pensando Che boiata, scendiamo
pensando Torno domani. Dobbiamo concludere che siamo ormai così
lobotomizzati da non capire più niente? Sarebbe comodo. Ma
temo che la verità sia diversa. La verità è
che siamo solo blandamente lobotomizzati. Siamo lucidi, quando
partecipiamo alla grande festa, lo facciamo con il cervello
innestato, con una parte del nostro cervello che non possiamo
sminuire, ma se mai dobbiamo capire. La nostra intelligenza si
muove così perché conosce quel terreno. E quando
l'istinto al moralismo non la ferma, smette di barare con se
stessa e si attiene ai fatti. I fatti sono che quando comprate
una scarpa della Nike pagate centomila lire per pagare il nome e
cinquantamila per comprare la scarpa. Siete scemi? No. State
comprando un mondo, che ve ne frega di quanto valga, in cuoio,
gomma e lavoro, quella scarpa? Comprate un mondo. Gente libera
che corre, quasi sempre bella, tendenzialmente elastica come
Michael Jordan, comunque molto moderna. Voi, in quel mondo. Con
150 mila lire. Se vi sembra un gesto infantile o idiota, allora
pensate a questo. Andate a concerto. Beethoven. Musica di
Beethoven. Avete pagato il biglietto. Cosa avete comprato? Un po'
di musica? No, un mondo. Un brand. Beethoven è un brand,
costruito nel tempo sulla figura di un genio sordo e ribelle,
alimentato da due generazioni di musicisti romantici che ne hanno
creato il mito. Da lui discende, direttamente, un brand ancora
più potente: la musica classica. Un mondo. Voi non avete
comprato un po' di musica: nel prezzo c'è anche la sala da
concerto, la gente che vi sta attorno, quella sensazione di
essere intelligenti e nobili, l'iscrizione a un club piuttosto
riservato e tendenzialmente selettivo. Avete affittato un mondo.
Per abitarlo. Ve l'hanno costruito con infinita abilità, e
voi lo comprate. L'hanno costruito perché erano buoni e
intelligenti? Forse lo erano, ma certo l'hanno costruito per la
stessa ragione che ha spinto la Nike a costruire il suo: soldi.
Che mi risulti Beethoven scriveva per soldi, e da lui fino
all'odierno discografico, e al pianista che sta suonando per voi,
quel che avete comprato è stato costruito da gente che
voleva tante cose, ma tra le tante una: i soldi. Lo so che fa
effetto dirlo, ma quello che tanto ci fa senso, quando si tratta
di scarpe o di hamburger, è un'esperienza che facciamo,
senza nessuna resistenza, quando in ballo ci sono cose più
nobili. Beethoven è un brand. Lo sono gli impressionisti
francesi. Lo è Kafka. Lo è Shakespeare. Lo è
anche Umberto Eco. E perfino Repubblica. Sono mondi. Che
significano assai più di quel che sono. Hanno le loro
regole, e noi le accettiamo. Per dire: ci convinciamo che le
patatine di McDonald's sono buone con la stessa illogica
arrendevolezza con cui accettiamo che Beethoven non abbia mai
scritto un pezzo brutto e inutile, che tutto Shakespeare sia
geniale, e che Repubblica scriva sempre la verità. Fa
parte del gioco. Ed è un gioco di cui noi abbiamo
bisogno. Noi siamo portati a preferire tutto ciò che ci
si offre con la forza organica di un mondo, non solo con la pura
presenza di un oggetto, per quanto bello. Noi siamo grati a chi
riesce ad allestire mondi. Sono assicurazioni contro il caos,
sono organizzazioni salvifiche del reale. Non credo ci sia
bisogno di annotare come il mondo allestito da Kafka sia più
ricco, complesso e intelligente di quello studiato dai
McDonald's. Lo sappiamo. Ma questo non ci deve impedire di capire
che il gioco è lo stesso, che il tipo di esperienza è
la stessa, che il mondo di Kafka non è più vero di
quello di McDonald's, che la visita a una mostra di
impressionisti francesi muove il nostro cervello esattamente come
un giro a Niketown, e che, insomma, noi quella esperienza la
conosciamo, ne facciamo largo uso, la usiamo per tramandare cose
degnissime, e finalmente non la temiamo, non crediamo sia il
demonio, se c'è il demonio, è altrove. Dice: sì
ma Beethoven non sfruttava indegnamente gli indonesiani, per fare
le sue scarpe. Al che si potrebbe obbiettare, a voler essere
cinicamente polemici, che gran parte della musica classica nacque
perché pagata da un mondo aristocratico che quanto a
sfruttamento non scherzava affatto. Ma il punto, in realtà,
è un altro. Se la Nike sfrutta i lavoratori va fermata e
basta. Ma far riverberare la nostra condanna, tout court, sul
concetto di brand, demonizzando il tipo di esperienza che
suggerisce, è controproducente: rende inservibile una
categoria, quella di brand, che invece è storicamente
insita nella nostra cultura, e che probabilmente è
inscindibile da qualsiasi idea di globalizzazione, comprese
quelle più umane e positive. Come costruire qualcosa se
buttiamo via gli strumenti per farlo? Posso fare un altro
esempio scomodo? La massificazione culturale. E' vero che la
globalizzazione porta a un mondo monoculturale, coagulato
sull'asse di una medietà tendente al basso? Probabilmente
è vero. Se dovete fare un film che, assurdamente, deve
piacere a tutto il pianeta (è esattamente quello che fanno
a Hollywood) dovete procedere per stereotipi comprensibili a
tutti, dovete essere chiari fino all'idiozia, dovete parlare un
linguaggio universale, dovete sintetizzare e semplificare fino
all'assurdo. Centinaia di film del genere contribuiranno a creare
un preciso gusto nel pubblico, allineandolo sull'asse di una
facile medietà: e con questo è avviato un circolo
vizioso che, effettivamente, tende a riassumere le infinite
differenze del pianeta in una sintetica ammucchiata al
centro. Detto questo, adesso provate a pensare. Omero. Iliade
e Odissea. Grandi enciclopedie in versi, in cui trovate l'indice
completo del sapere dei Greci, dalle ricette di cucina alle
regole della guerra. Capolavori altissimi, si dice. Lo specchio
esatto di una grande civiltà. Giusto. Ma a che prezzo?
Pensateci. Se dovete raccontare l'Uomo Greco, è chiaro che
dovete innanzitutto produrlo, prendendo l'infinita varietà
e ricchezza degli uomini greci e riassumendola, semplificandola,
sintetizzandola in un unico modello tipico. Quel che ottenete
alla fine è qualcosa di molto efficace ma
irrimediabilmente riduttivo. E tutti quei greci a cui Achille
sembrava un pazzo sanguinario, e la geografia degli dei una roba
obsoleta, e il culto della guerra un'idiozia? Dove son finiti?
Non esistevano? Eccome, se esistevano. Possibile che ci fosse un
solo modo di costruire uno scudo, o di vestirsi, o di intendere
la vita? No. La Grecia era piena di greci che in Omero non ci
sono, come il mondo è pieno di gente che nei film di
Hollywood non è prevista. Omero è la cultura dei
vincenti, dei più, di quelli che avevano avuto successo.
Rassegnatevi: Omero era gli americani. Questo non ci impedisce di
considerare, a ragione, l'Iliade un capolavoro, e l'Odissea uno
dei pilastri dell'immaginario occidentale. Non è
strano? Accusare la globalizzazione di contrarre la libertà
collettiva, riducendo la complessità del mondo a pochi
modelli riassuntivi, è un modo di partire da premesse vere
per arrivare a conclusioni false. E' vero che la globalizzazione
tende a muoversi in quel modo, ma non è vero che la cosa,
in se per sé, sia da demonizzare. La storia dell'occidente
è, in definitiva, la storia di analoghi compressioni della
libertà collettiva: una delle più deleterie
globalizzazioni, quella che costrinse l'arte dell'intero
occidente a essere solo arte sacra, tagliando via di netto la
vita quotidiana dai suoi soggetti, ha prodotto alla fine
centinaia di capolavori, e secoli di grandezza artistica: il
fatto (di per sé assurdo) che potessero solo dipingere
madonne, confuta la bellezza di quelle madonne? Neanche per
sogno. E la vertiginosa raffinatezza della filosofia scolastica,
è in qualche modo ridimensionata dal fatto, di per sé
assurdo, che quella intelligenza era confinata nella galera del
pensiero teologico? Non credo. E la musica classica? Il
linguaggio armonico di Mozart, confrontato a quello di un
polifonista fiammingo del 500, suona come una semplificazione da
asilo infantile: ma senza quella assurda contrazione delle
possibilità espressive, non sarebbe mai nata quella che
noi chiamiamo musica classica. I brand, la massificazione
culturale. Volevo suggerire come capire i termini del problema
non sia così semplice come sembra. La prima risposta non è
quella che conta. L'opposizione istintiva, pura e semplice, non è
quello che ci serve. Quei temi, come mille altri, sono un campo
aperto in cui un pensiero capace di resistere ai luoghi comuni
saprebbe allestire un futuro vivibile, sottraendone la gestione
ai manager di turno. Posso sbagliarmi, ma l'idea che una
globalizzazione umana sia possibile, passa attraverso quella
rivoluzione culturale: implica che il mondo accetti di pensare il
futuro, e la smetta di difendere un passato che non è mai
esistito. Non credo che se c'è una globalizzazione "buona"
la possano realizzare cervelli che distruggono i McDonald's o
vedono solo film francesi. Ho in mente qualcosa di diverso. Ho in
mente gente convinta che la globalizzazione, così come ce
la stanno vendendo, non è un sogno sbagliato: è un
sogno piccolo. Arrestato. Bloccato. Ostaggio dell'immaginario di
manager e banchieri. Sognare quel sogno al posto loro: questo, e
nulla meno di questo, sarebbe il nostro compito.
Alessandro
Baricco LA REPUBBLICA 30/10/2001
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