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Natalia
Lombardo |
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La tela del quadro come il muro della città, il muro come un block-notes per appunti interiori gridati alla metropoli. Jean-Michel Basquiat, artista nero erede della Pop Art, nei pochi anni della sua vita e della sua esuberante produzione è diventato anche un mito, oltre che uno degli artisti più significativi (e quotati) nella New York degli anni 80, insieme a Keith Haring. Una figura fascinosa e «maledetta», tanto da essere paragonato a James Dine. |
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Con lo stesso vitale disprezzo per
il futuro, come lattore di «Gioventù bruciata»,
Basquiat ha bloccato la corsa del suo futuro nel mondo con una morte
precoce. Una figura dai tanti volti: la purezza del segno di bambino
che cela una cultura artistica, la trasgressione nello stile di vita
e lambizione sedotta dal mercato, la spiritualità
ancestrale e la negritudine dipinta come una bandiera. Un artista che
è riuscito ad andare oltre lintuizione geniale di Andy
Wahrol (quellaver oggettivizzato i prodotti di consumo elevati
al rango di monumenti seriali) e ad amplificare la voce interiore
strisciata sui muri undreground dai graffitisti newyorkesi.
Jean-Michel Basquiat, dipinti, è la mostra
aperta a Roma al Chiostro del Bramante fino al 7 aprile, curata da
Gianni Mercurio e Mirella Panepinto. 50 dipinti, dei quali esposti
per la prima volta in Italia, provenienti da collezioni private
americane e europee. La vita e larte di Basquiat sono state
impastate nella Grande Mela, ombelico del mondo dove è nato
nel 1960 e dove morì per una overdose di eroina il 28 agosto
1988, a soli 28 anni. E di New York il pittore ha assorbito i
movimenti vitali, i segni e i suoni della musica jazz e rock, dal
Be-Bop allhard-pop al Rap. In molte delle sue opere cubitali,
infatti, traduce in colore e segno le note del jazz, quasi degli
omaggi a miti come Charlie Parker e Louis Armstrong, Miles Davis o
John Coltrane. Il quadro è un gran crogiuolo che contiene
tutto: segni di un alfabeto arcaico che evoca i riti vudu, linguaggio
di una fiera negritudine cercata in unAfrica mai vista, ma
sentita nel sangue. Parole incrociate e baloon di fumetti, frammenti
letterari, graffi infantili, citazioni dellarte classica
sdrammatizzata da colpi di pennello, simboli personalissimi
trasformati in logo, come la corona presente in molte opere.
E
dal logo parte, Basquiat, dalla firma Samo tracciata
ossessivamente sui muri anonimi di New York e nelle stazioni della
metropolitana. La passione per larte gli è stata
trasmessa dalla madre, che da bambino lo portava ai musei e che ha
intuito la sua vena artistica, regalandogli un libro di anatomia
durante una lunga convalescenza. Jean Michel, costretto a letto,
disegnava e dipingeva, e il ricordo delle viscere ritorna dei quadri.
I suoi graffiti incuriosirono gli artisti newyorkesi già
entrati nel giro nobile delle gallerie, e lui, nero e
testardo, voleva uscire dal confine underground. Comincia così
a girare per i caffé con cartoline che a malapena contengono
il suo stridente messaggio. Così lo conosce Andy Wharol, del
quale diventa il pupillo. E da Basquiat il re della Pop Art si lascia
provocare e superare, permette che interrompa con una pennellata
gridata la metodicità delle sue icone del consumo. Jean Michel
ce la fa, entra nel giro ufficiale dellarte, nella Grande Mela
del boom consumistico, dove anche lesistenza si brucia un
minuto dopo laltro. La sua prima mostra, nel 1981, è la
collettiva New York/New Wave, al Ps1. Da allora, fino al
1988 la sua fama cresce, e anche i suoi guadagni, grazie alla
produzione ricchissima di opere che sforna a getto continuo. Un dato
in comune con gli altri pittori di quel periodo, trasgressivi sì,
ma senza ombra di rifiuto ideologico del mercato. È il primo
artista nero ad avere un tale successo, e qualcuno ha intravisto in
questo anche un razzismo al contrario, nellossessione nascente
del politically correct. Ma il linguaggio di Basquiat, se pure
criptico, sfonda la tela, supera la mente a va dritto allanima.
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