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Natalia Lombardo
L'UNITA' 05.02.2002

Segni a ritmo di rap.
Cinquanta Basquiat in mostra a Roma



La tela del quadro come il muro della città, il muro come un block-notes per appunti interiori gridati alla metropoli. Jean-Michel Basquiat, artista nero erede della Pop Art, nei pochi anni della sua vita e della sua esuberante produzione è diventato anche un mito, oltre che uno degli artisti più significativi (e quotati) nella New York degli anni 80, insieme a Keith Haring. Una figura fascinosa e «maledetta», tanto da essere paragonato a James Dine.

Con lo stesso vitale disprezzo per il futuro, come l’attore di «Gioventù bruciata», Basquiat ha bloccato la corsa del suo futuro nel mondo con una morte precoce. Una figura dai tanti volti: la purezza del segno di bambino che cela una cultura artistica, la trasgressione nello stile di vita e l’ambizione sedotta dal mercato, la spiritualità ancestrale e la negritudine dipinta come una bandiera. Un artista che è riuscito ad andare oltre l’intuizione geniale di Andy Wahrol (quell’aver oggettivizzato i prodotti di consumo elevati al rango di monumenti seriali) e ad amplificare la voce interiore strisciata sui muri undreground dai graffitisti newyorkesi.
“Jean-Michel Basquiat, dipinti”, è la mostra aperta a Roma al Chiostro del Bramante fino al 7 aprile, curata da Gianni Mercurio e Mirella Panepinto. 50 dipinti, dei quali esposti per la prima volta in Italia, provenienti da collezioni private americane e europee. La vita e l’arte di Basquiat sono state impastate nella Grande Mela, ombelico del mondo dove è nato nel 1960 e dove morì per una overdose di eroina il 28 agosto 1988, a soli 28 anni. E di New York il pittore ha assorbito i movimenti vitali, i segni e i suoni della musica jazz e rock, dal Be-Bop all’hard-pop al Rap. In molte delle sue opere “cubitali”, infatti, traduce in colore e segno le note del jazz, quasi degli omaggi a miti come Charlie Parker e Louis Armstrong, Miles Davis o John Coltrane. Il quadro è un gran crogiuolo che contiene tutto: segni di un alfabeto arcaico che evoca i riti vudu, linguaggio di una fiera negritudine cercata in un’Africa mai vista, ma sentita nel sangue. Parole incrociate e baloon di fumetti, frammenti letterari, graffi infantili, citazioni dell’arte classica sdrammatizzata da colpi di pennello, simboli personalissimi trasformati in logo, come la corona presente in molte opere.
E dal logo parte, Basquiat, dalla firma “Samo” tracciata ossessivamente sui muri anonimi di New York e nelle stazioni della metropolitana. La passione per l’arte gli è stata trasmessa dalla madre, che da bambino lo portava ai musei e che ha intuito la sua vena artistica, regalandogli un libro di anatomia durante una lunga convalescenza. Jean Michel, costretto a letto, disegnava e dipingeva, e il ricordo delle viscere ritorna dei quadri. I suoi graffiti incuriosirono gli artisti newyorkesi già entrati nel giro “nobile” delle gallerie, e lui, nero e testardo, voleva uscire dal confine underground. Comincia così a girare per i caffé con cartoline che a malapena contengono il suo stridente messaggio. Così lo conosce Andy Wharol, del quale diventa il pupillo. E da Basquiat il re della Pop Art si lascia provocare e superare, permette che interrompa con una pennellata gridata la metodicità delle sue icone del consumo. Jean Michel ce la fa, entra nel giro ufficiale dell’arte, nella Grande Mela del boom consumistico, dove anche l’esistenza si brucia un minuto dopo l’altro. La sua prima mostra, nel 1981, è la collettiva “New York/New Wave”, al Ps1. Da allora, fino al 1988 la sua fama cresce, e anche i suoi guadagni, grazie alla produzione ricchissima di opere che sforna a getto continuo. Un dato in comune con gli altri pittori di quel periodo, trasgressivi sì, ma senza ombra di rifiuto ideologico del mercato. È il primo artista nero ad avere un tale successo, e qualcuno ha intravisto in questo anche un razzismo al contrario, nell’ossessione nascente del politically correct. Ma il linguaggio di Basquiat, se pure criptico, sfonda la tela, supera la mente a va dritto all’anima.


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