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MUSICA

Battiato canta la protesta

L'applauso è scrosciante. Due volte. Quando Franco Battiato canta “fra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...”. E poi al verso “che non si parli più di dittature...”. La canzone è “Povera patria” del 1991. Un'invettiva contro il potere che oggi, a distanza di 12 anni, ha uno straordinario appeal popolare.

“Al punto che ho dovuto epurala un po', togliere i commenti della gente” spiega Battiato, alla vigilia della pubblicazione del suo cd live “Last Summer Dance”, da venerdì nei negozi. Un album magico e trascinante, con 26 canzoni, da “La cura” a “Centro di gravità permanente”, compresa la filosofica “Accetta un un consiglio”, recitata da un grande Manlio Sgalambro.

Battiato, “Povera patria” è la canzone più applaudita dell'album.

E' questo è niente. A Nuoro, quando ho cantato “buffoni”, ha tremato la terra: un vulcano in eruzione. E non c'entra il brano, ma il contesto, il momento storico. Comunque, ho preferito selezionare anche l'entusiasmo e la rabbia. Sarebbe stato troppo...

Era una contestazione politica con nomi e cognomi?

No, piuttosto la stanchezza di sentirsi dire “vi porteremo l'acqua, vi faremo i ponti, faremo strade nuove...”. E poi non succede nulla.

Però lei la canta da dieci anni. Il pubblico la scopre adesso?

No, ma le gente è più consapevole, scende per strada a favore della pace. Siamo tutti turbati. In tutto il mondo. Uno stato d'animo impensabile vent'anni fa, quando sembrava che ciascuno si facesse gli affari suoi. Oggi la gente prova compassione verso gli altri, cosa che prima non accadeva.

E' un momento positivo anche nella musica?

Per me sì. Non sono mai stato catastrofista: qua e là senti cose molto interessanti. C'è sempre qualcuno che lavora per alzare il valore dell'arte.

Non le pesano trent'anni di carriera?

No, purtroppo. E dico così perché alla mia età dovrei essere più severo, invece ho ancora voglia di sperimentare, e rischiare.

Alcune canzoni sentono la presenza del filosofo Sgalambro. Cosa c'è fra di voi?

Anzitutto un'amicizia ch'è, come ho sempre sognato, una bellissima collaborazione. Il nostro incontro non dà frutti per contrasto, ma per affinità. Abbiamo la stessa idea del processo evolutivo di un brano.

E funziona, giusto?

In modo sorprendente. Una volta, a Roma, venne a sentirci Michael Nyman. Successe una cosa strana: andò in delirio per le parti dove io sono orchestratore dei testi di Sgalambro, e rimase tiepido per i miei successi. Che piacciono di più, invece, a chi ama gli slogan della musica leggera, l'effettismo un po' facile. Che francamente trovo un po' noioso.

Cos'è che l'annoia?

Certe canzoni d'amore coatto, che non dicono la verità, e lo senti benissimo. Quelle che ho già sentite milioni di volte, con la stessa melodia, la stessa armonica, lo stesso canto.

Lei ha ispirato con musiche ispirate alla lezione di Stockhausen, Varèse e Satie. Pensa di aver insegnato qualcosa al suo pubblico?

Credo di sì. Almeno dalle lettere che ricevo, una certa preoccupazione per i problemi dell'esistenza la riscontro spesso. C'è gente che ascolta “L'Oceano di silenzio”, quel repertorio lì, perché probabilmente il terreno era già predisposto.

In questo album, lei è molto impressionista, come se la musica si dovesse vedere.

Altrimenti non l'avrei fatto. Vede, a me gli album dal vivo non piacciono perché manca l'esattezza, manca un controllo, manca la precisione di certe interpretazioni. Questa volta invece mi sono detto: hai fatto bene a registrare questa canzone o quella. E sa perché? E' un po' l'esempio di “Povera patria”: il pubblico è stato determinante ad aumentare il fascino della liturgia.

Intervista di Renato Tortarolo – IL SECOLO XIX – 21/10/2003

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