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Un anno al Garage Olimpo |
Marco Bechis pensava al film «Garage Olimpo» da molti anni. Su «Diario» anticipa la sua esperienza nel campo di concentramento clandestino della dittatura argentina. Un regime che, dal 1976 al 1982, uccise circa 30 mila persone, soprattutto giovani
Alle 22,25 del
19 aprile 1977, uscendo dalla scuola serale Mariano Acosta a Buenos
Aires, sono stato sequestrato da quattro militari in borghese. Mi
hanno bendato, mi hanno trascinato dentro una macchina beige e
trasportato in un luogo chiamato «Club Atletico».
Entrando ho sentito il rumore della saracinesca che si apriva e si
abbassava. Spogliandomi mi hanno preso il passaporto italiano che
portavo in tasca. Mi hanno applicato una catena intorno alle caviglie
con due lucchetti numerati 190 e 191, numeri che dovevo ricordare. La
catena impediva passi più lunghi di cinquanta centimetri. Se
si considerano progressivi i numeri dei lucchetti, nei sotterranei
del «Club Atletico» c’erano in quel momento 95
persone. Hanno battuto a macchina una scheda con i miei dati: Marco
Bechis/24 ottobre 1955/anche chiamato «Tano» (contrazione
di «italiano») dai suoi compagni/maestro elementare/...
Mi è stato assegnato un numero in codice, AO1. Bendato ma
senza più vestiti, sono stato portato giù nei
sotterranei, scendendo da una scala a chiocciola. Qualcuno che
giocava a ping-pong mi ha detto: «Qui puoi urlare quanto vuoi,
tanto non ti ascolta nessuno. Qui sei nell’Esercito
argentino». Hanno aperto i lucchetti alle caviglie e mi hanno
legato piedi e mani ai quattro angoli di un tavolo di metallo. Una
nuova voce, più autorevole delle altre, ha acceso la picana
(un pungolo elettrico a voltaggio regolabile che emette un ronzio
unico) ed ha iniziato l’interrogatorio. Erano mesi che mi
ero allontanato dall’attività politica attiva.
Quella decisione fu la mia fortuna perché, senza più
contatti con i miei compagni, su quel tavolo mi sentivo forte almeno
in un punto: ero certo che non avrei potuto denunciare nessuno, anche
se la corrente elettrica mi avesse scosso il cervello. Volevano da me
nomi, appuntamenti, indirizzi e quando si sono convinti che non avevo
informazioni utili da dare mi hanno slegato e rinchiuso nella cella
numero 16. Avevo libere le mani, ma la benda stava sempre al suo
posto, essere sorpreso senza benda significava la morte immediata.
Ricordo perfettamente tutte le loro voci. Poco cibo, quanto bastava
per non morire di fame. In attesa degli altri interrogatori, sono
passati quindici giorni. Attraverso i muri ho ascoltato molte altre
voci di prigionieri che non sono mai più ricomparsi.
I miei
genitori, che abitavano in Italia, sono arrivati in Argentina due
giorni dopo la mia scomparsa. Dopo aver chiesto invano mie notizie
presso le autorità militari, sono riusciti ad entrare in
contatto con il generale Guillermo Suarez Mason, capo del Corpo 1
dell’Esercito che controllava la città di Buenos
Aires. Suarez Mason, di fronte al mio caso, disse testualmente: «Tra
trentasei ore vi dico se è possibile fare qualcosa o se ve lo
dovete dimenticare». Dopo questo contatto fortunato tra i miei
genitori e il generale ci sono stati altri due interrogatori con
l’elettricità, durante i quali volevano capire
esattamente quale era il mio grado di coinvolgimento
nell’organizzazione che si opponeva al regime. Quarantotto
ore dopo il primo contatto, la risposta del generale fu: «Si
può fare qualcosa». Mi hanno fatto risalire la scala a
chiocciola, hanno controllato che non ci fossero segni sul mio corpo
e mi hanno fatto rivestire con una camicia nera e un paio di
pantaloni neri. Due sequestratori mi hanno fatto attraversare in
macchina la città, sdraiato tra il sedile posteriore e lo
schienale di quello anteriore. Non dovevo sapere dov’ero
stato. Durante il viaggio hanno discusso delle prodezze del Peñarol,
la squadra di calcio di Montevideo. Finalmente mi hanno deposito
nella sala d’accesso di Villa Devoto, il carcere della
città.
Qualcuno mi tolse la benda. Era un secondino del
carcere. Mentre mi prendeva le impronte digitali e scattava le
fotografie di fronte e di profilo col numero sul petto, io
fischiettavo. Ero di nuovo tra i vivi. Per la burocrazia del carcere
ero stato arrestato solo qualche ora prima. Quindici giorni o un anno
di sequestro non faceva differenza. Entravo in carcere senza alcuna
imputazione, perché un decreto legge lo consentiva: qualunque
sospettato poteva essere arrestato preventivamente senza bisogno di
alcun capo d’imputazione. Dopo qualche giorno, nella cella
collettiva da sei posti di Villa Devoto è arrivato un ragazzo
di vent’anni appena uscito da un altro campo di
concentramento, l’«Olimpo». Il ragazzo era
magro magro, aveva quasi tutti i denti rotti, indossava dei pantaloni
cortissimi che gli arrivavano appena sotto le ginocchia. Per due
settimane non ha parlato mai con nessuno, se ne stava seduto sulla
branda in silenzio e se qualcuno gli si avvicinava, aveva una
reazione istintiva di spavento. Non dormiva mai. Durante l’ora
d’aria camminava costantemente. E masticava sempre
qualcosa, ma non deglutiva, masticava per ore lo stesso boccone di
pane per riabituarsi a mangiare. Dopo un mese ho saputo il suo nome:
Carlos. È stata la prima parola che gli ho sentito dire. Avevo
passato un anno nei sotterranei dell’«Olimpo».
Tra
il 1976 e il 1982 nella città di Buenos Aires hanno funzionato
365 campi di concentramento clandestini come il «Club Atletico»
e l’«Olimpo». 365 luoghi sotto la città
che ha ospitato un mondiale di calcio nel 1978, tournée di
balletto moderno, l’Opera lirica. Nel 1977 alcuni
giornalisti hanno protestato vivamente riempiendo colonne dei loro
giornali perché alcuni film europei venivano proiettati con
tagli di censura, ma gli stessi non hanno scritto mai una riga su
quello che stava avvenendo sotto i loro piedi. E sapevano, loro
sapevano. Buenos Aires, una città che in quegli anni ha
moltiplicato vertiginosamente gli affari con investimenti che
arrivano da paesi di tutto il mondo, l’Italia tra i primi.
Il 4 luglio 1977 sono stato espulso dall’Argentina con un
decreto legge, perché italiano.
Due militari
dell’aeronautica mi hanno scortato fino all’aereo.
Abbiamo attraversato la pista dell’aeroporto fin sotto la
scaletta di un Dc8 dell’Alitalia dove un funzionario ha
consegnato al comandante dell’aereo il mio passaporto
italiano che mi era stato tolto tre mesi prima, appena entrato nel
«Club Atletico». I due livelli, quello dei sequestri
illegali e quello della detenzione comune, erano collegati tra loro
ed erano ben coordinati. A Fiumicino una macchina dei carabinieri mi
è venuta a prendere sotto l’aereo. Ero stato
espatriato, quindi per qualche oscuro motivo la cosa richiedeva la
loro presenza. Sul furgoncino che attraversava la pista e che mi
portava direttamente ai voli nazionali, il carabiniere che avevo di
fianco mi ha detto: «Laggiù sì che fanno sul
serio, mica come qui da noi».
Il 23 settembre ero a Bologna,
al grande raduno del movimento del ‘77. Avevo bisogno di
scrollarmi di dosso la paura di uscire di casa. C’era tanta
gente. Sono stati tre giorni indimenticabili, con alcuni momenti duri
di scontro e molti di confronto. La democrazia mi sembrava un lusso.
Seduto sui gradini di Piazza Maggiore, guardavo la gente pensando:
«Ecco i più arrabbiati, i più vitali, i più
coraggiosi, i più violenti, i più sensibili, sono tutti
qui... In Argentina ci sono trentamila ragazzi del ‘77 in
meno». Giustizia in Argentina non c’è stata, i
responsabili dello sterminio circolano oggi liberamente per le
strade, sequestratori, torturatori, colonnelli, generali. Capita di
incontrarli in un bar, in un ristorante, in un cinema. Capita anche
che qualcuno li riconosca e li insulti. In genere il criminale
accenna un sorriso beffardo e si risiede a tavola, bene o male è
soddisfatto di essere ancora qualcuno. Ecco cos’è
l’impunità. Ho chiesto ad Angela Boitano, madre di
Michelangelo e di Adriana, due miei compagni di scuola sequestrati e
mai più ritornati, perché nessuno dei familiari dei
trentamila desaparecidos non si sia mai fatto giustizia da solo.
Angela mi ha risposto, serena: «La morte di un assassino non
significa niente per me, io voglio giustizia che è qualcosa di
ben più importante».
Sono più di un centinaio
gli italiani (con un passaporto in tasca) che sono ancora
desaparecidos. L’udienza preliminare contro i militari
argentini colpevoli della morte e della tortura di centinaia di
italiani, è fissata per l’11 luglio 1997 a Roma. Uno
degli imputati è l’ex generale Guillermo Suarez
Mason, colui che mi graziò nel lontano 1977. Ma rimane
imputato di 435 omicidi, una piccola punta dell’iceberg di
quello che sono state le sue vere responsabilità. In una
recente intervista che Suarez Mason ha concesso a casa sua a Buenos
Aires, il giornalista del settimanale Noticias gli ha chiesto se non
gli dava fastidio che la maggior parte dell’opinione
pubblica lo considerasse un criminale e lui ha risposto: «Non è
che mi dia fastidio, fastidio o no qualcuno lo doveva fare».
Marco Bechis, regista italo-argentino, dopo Garage
Olimpo ha girato Hijos, un film sui figli dei
desaparecidos.
Sta in:
http://www.diario.it/cnt/speciali/Diario5anni_51/Bechis_p42.htm
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