| BIBLIOTECA | EDICOLA |TEATRO | CINEMA | IL MUSEO | Il BAR DI MOE | LA CASA DELLA MUSICA | LA CASA DELLE TERRE LONTANE |
|
LA STANZA DELLE MANIFESTAZIONI | NOSTRI LUOGHI | ARSENALE | L'OSTERIA | IL PORTO DEI RAGAZZI | LA GATTERIA |

Altri articolo Marco Bechis

Marco Bechis
Diario
Anno 1997,
21 dic 2001

Un anno al Garage Olimpo

Marco Bechis pensava al film «Garage Olimpo» da molti anni. Su «Diario» anticipa la sua esperienza nel campo di concentramento clandestino della dittatura argentina. Un regime che, dal 1976 al 1982, uccise circa 30 mila persone, soprattutto giovani


Alle 22,25 del 19 aprile 1977, uscendo dalla scuola serale Mariano Acosta a Buenos Aires, sono stato sequestrato da quattro militari in borghese. Mi hanno bendato, mi hanno trascinato dentro una macchina beige e trasportato in un luogo chiamato «Club Atletico». Entrando ho sentito il rumore della saracinesca che si apriva e si abbassava. Spogliandomi mi hanno preso il passaporto italiano che portavo in tasca. Mi hanno applicato una catena intorno alle caviglie con due lucchetti numerati 190 e 191, numeri che dovevo ricordare. La catena impediva passi più lunghi di cinquanta centimetri. Se si considerano progressivi i numeri dei lucchetti, nei sotterranei del «Club Atletico» c’erano in quel momento 95 persone. Hanno battuto a macchina una scheda con i miei dati: Marco Bechis/24 ottobre 1955/anche chiamato «Tano» (contrazione di «italiano») dai suoi compagni/maestro elementare/... Mi è stato assegnato un numero in codice, AO1. Bendato ma senza più vestiti, sono stato portato giù nei sotterranei, scendendo da una scala a chiocciola. Qualcuno che giocava a ping-pong mi ha detto: «Qui puoi urlare quanto vuoi, tanto non ti ascolta nessuno. Qui sei nell’Esercito argentino». Hanno aperto i lucchetti alle caviglie e mi hanno legato piedi e mani ai quattro angoli di un tavolo di metallo. Una nuova voce, più autorevole delle altre, ha acceso la picana (un pungolo elettrico a voltaggio regolabile che emette un ronzio unico) ed ha iniziato l’interrogatorio. Erano mesi che mi ero allontanato dall’attività politica attiva. Quella decisione fu la mia fortuna perché, senza più contatti con i miei compagni, su quel tavolo mi sentivo forte almeno in un punto: ero certo che non avrei potuto denunciare nessuno, anche se la corrente elettrica mi avesse scosso il cervello. Volevano da me nomi, appuntamenti, indirizzi e quando si sono convinti che non avevo informazioni utili da dare mi hanno slegato e rinchiuso nella cella numero 16. Avevo libere le mani, ma la benda stava sempre al suo posto, essere sorpreso senza benda significava la morte immediata. Ricordo perfettamente tutte le loro voci. Poco cibo, quanto bastava per non morire di fame. In attesa degli altri interrogatori, sono passati quindici giorni. Attraverso i muri ho ascoltato molte altre voci di prigionieri che non sono mai più ricomparsi.
I miei genitori, che abitavano in Italia, sono arrivati in Argentina due giorni dopo la mia scomparsa. Dopo aver chiesto invano mie notizie presso le autorità militari, sono riusciti ad entrare in contatto con il generale Guillermo Suarez Mason, capo del Corpo 1 dell’Esercito che controllava la città di Buenos Aires. Suarez Mason, di fronte al mio caso, disse testualmente: «Tra trentasei ore vi dico se è possibile fare qualcosa o se ve lo dovete dimenticare». Dopo questo contatto fortunato tra i miei genitori e il generale ci sono stati altri due interrogatori con l’elettricità, durante i quali volevano capire esattamente quale era il mio grado di coinvolgimento nell’organizzazione che si opponeva al regime. Quarantotto ore dopo il primo contatto, la risposta del generale fu: «Si può fare qualcosa». Mi hanno fatto risalire la scala a chiocciola, hanno controllato che non ci fossero segni sul mio corpo e mi hanno fatto rivestire con una camicia nera e un paio di pantaloni neri. Due sequestratori mi hanno fatto attraversare in macchina la città, sdraiato tra il sedile posteriore e lo schienale di quello anteriore. Non dovevo sapere dov’ero stato. Durante il viaggio hanno discusso delle prodezze del Peñarol, la squadra di calcio di Montevideo. Finalmente mi hanno deposito nella sala d’accesso di Villa Devoto, il carcere della città.
Qualcuno mi tolse la benda. Era un secondino del carcere. Mentre mi prendeva le impronte digitali e scattava le fotografie di fronte e di profilo col numero sul petto, io fischiettavo. Ero di nuovo tra i vivi. Per la burocrazia del carcere ero stato arrestato solo qualche ora prima. Quindici giorni o un anno di sequestro non faceva differenza. Entravo in carcere senza alcuna imputazione, perché un decreto legge lo consentiva: qualunque sospettato poteva essere arrestato preventivamente senza bisogno di alcun capo d’imputazione. Dopo qualche giorno, nella cella collettiva da sei posti di Villa Devoto è arrivato un ragazzo di vent’anni appena uscito da un altro campo di concentramento, l’«Olimpo». Il ragazzo era magro magro, aveva quasi tutti i denti rotti, indossava dei pantaloni cortissimi che gli arrivavano appena sotto le ginocchia. Per due settimane non ha parlato mai con nessuno, se ne stava seduto sulla branda in silenzio e se qualcuno gli si avvicinava, aveva una reazione istintiva di spavento. Non dormiva mai. Durante l’ora d’aria camminava costantemente. E masticava sempre qualcosa, ma non deglutiva, masticava per ore lo stesso boccone di pane per riabituarsi a mangiare. Dopo un mese ho saputo il suo nome: Carlos. È stata la prima parola che gli ho sentito dire. Avevo passato un anno nei sotterranei dell’«Olimpo».
Tra il 1976 e il 1982 nella città di Buenos Aires hanno funzionato 365 campi di concentramento clandestini come il «Club Atletico» e l’«Olimpo». 365 luoghi sotto la città che ha ospitato un mondiale di calcio nel 1978, tournée di balletto moderno, l’Opera lirica. Nel 1977 alcuni giornalisti hanno protestato vivamente riempiendo colonne dei loro giornali perché alcuni film europei venivano proiettati con tagli di censura, ma gli stessi non hanno scritto mai una riga su quello che stava avvenendo sotto i loro piedi. E sapevano, loro sapevano. Buenos Aires, una città che in quegli anni ha moltiplicato vertiginosamente gli affari con investimenti che arrivano da paesi di tutto il mondo, l’Italia tra i primi. Il 4 luglio 1977 sono stato espulso dall’Argentina con un decreto legge, perché italiano.
Due militari dell’aeronautica mi hanno scortato fino all’aereo. Abbiamo attraversato la pista dell’aeroporto fin sotto la scaletta di un Dc8 dell’Alitalia dove un funzionario ha consegnato al comandante dell’aereo il mio passaporto italiano che mi era stato tolto tre mesi prima, appena entrato nel «Club Atletico». I due livelli, quello dei sequestri illegali e quello della detenzione comune, erano collegati tra loro ed erano ben coordinati. A Fiumicino una macchina dei carabinieri mi è venuta a prendere sotto l’aereo. Ero stato espatriato, quindi per qualche oscuro motivo la cosa richiedeva la loro presenza. Sul furgoncino che attraversava la pista e che mi portava direttamente ai voli nazionali, il carabiniere che avevo di fianco mi ha detto: «Laggiù sì che fanno sul serio, mica come qui da noi».
Il 23 settembre ero a Bologna, al grande raduno del movimento del ‘77. Avevo bisogno di scrollarmi di dosso la paura di uscire di casa. C’era tanta gente. Sono stati tre giorni indimenticabili, con alcuni momenti duri di scontro e molti di confronto. La democrazia mi sembrava un lusso. Seduto sui gradini di Piazza Maggiore, guardavo la gente pensando: «Ecco i più arrabbiati, i più vitali, i più coraggiosi, i più violenti, i più sensibili, sono tutti qui... In Argentina ci sono trentamila ragazzi del ‘77 in meno». Giustizia in Argentina non c’è stata, i responsabili dello sterminio circolano oggi liberamente per le strade, sequestratori, torturatori, colonnelli, generali. Capita di incontrarli in un bar, in un ristorante, in un cinema. Capita anche che qualcuno li riconosca e li insulti. In genere il criminale accenna un sorriso beffardo e si risiede a tavola, bene o male è soddisfatto di essere ancora qualcuno. Ecco cos’è l’impunità. Ho chiesto ad Angela Boitano, madre di Michelangelo e di Adriana, due miei compagni di scuola sequestrati e mai più ritornati, perché nessuno dei familiari dei trentamila desaparecidos non si sia mai fatto giustizia da solo. Angela mi ha risposto, serena: «La morte di un assassino non significa niente per me, io voglio giustizia che è qualcosa di ben più importante».
Sono più di un centinaio gli italiani (con un passaporto in tasca) che sono ancora desaparecidos. L’udienza preliminare contro i militari argentini colpevoli della morte e della tortura di centinaia di italiani, è fissata per l’11 luglio 1997 a Roma. Uno degli imputati è l’ex generale Guillermo Suarez Mason, colui che mi graziò nel lontano 1977. Ma rimane imputato di 435 omicidi, una piccola punta dell’iceberg di quello che sono state le sue vere responsabilità. In una recente intervista che Suarez Mason ha concesso a casa sua a Buenos Aires, il giornalista del settimanale Noticias gli ha chiesto se non gli dava fastidio che la maggior parte dell’opinione pubblica lo considerasse un criminale e lui ha risposto: «Non è che mi dia fastidio, fastidio o no qualcuno lo doveva fare».
Marco Bechis, regista italo-argentino, dopo Garage Olimpo ha girato Hijos, un film sui figli dei desaparecidos.


Sta in:

http://www.diario.it/cnt/speciali/Diario5anni_51/Bechis_p42.htm


| UFFICIO INFORMAZIONI | LA POSTA | CHAT | SMS gratis | LINK TO LINK!
| LA CAPITANERIA DEL PORTO | Mailing List | Forum | Newsletter | Il libro degli ospiti | ARCHIVIO | MOTORI DI RICERCA |