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Bertoli, a muso duro



Un pomeriggio dalla fine degli anni settanta, a Napoli, giardinetti della Villa comunale, prima di Santa Lucia: dal palco di una manifestazione viene annunciata l'esibizione di Pierangelo Bertoli e si alza un boato dalle migliaia di ragazzi presenti. Anch'io ero lì per vederlo e sentirlo. Fino a quel momento avevo solo e ascoltato qualche disco ed ero io curioso di sentirlo dal vivo che esprimeva quella forza e quell'ideologia rabbiosa, con parole che paravano ispirarsi sia al vecchio canzoniere anarchico, sia a quello partigiano, con il vento che soffia ancora. Ma c'era qualcosa in più, in quella canzone, che la rendeva attuale: ed era la rabbia per le ricadute di polveri velenose, di esperimenti atomici, di offesa all'ambiente.

“Pierangelo Bertoli”, gridò un presentatore ed egli fu preso da quella che avrebbe definito in una canzone “sedia elettrica”, cioè dalla sua carrozzina sotto il palco, e issato sulle spalle e quasi lanciato sulla sedia davanti i microfoni. Era una autentica messa in scena, una mossa studiata e provata nelle precedenti esibizioni. Credo che con essa intendesse sottolineare il suo stato di handicappato, di poliomielitico, che non ha vergogna, che anzi rivendica in pieno e pubblicamente il suo diritto ad esibirsi e a cantare. Tutto il contrario di quell'atteggiamento che era stato di Luciano Tajoli, ad esempio, discriminato dalla nostra televisione per la sua infermità, che contribuiva però a farlo amare in quanto persona sfortunata che non si era piegata al destino e filtrava le storie d'amore vissute da altri attraverso un'accoratezza ai limiti della tollerabilità. Quando lo avevano accettato a Sanremo, nel 1961, la regia era stata ben preparata: inquadrare il pubblico, mentre Tajoli entrava sorretto da un bastone e da una valletta, farlo appoggiare a una sedia e poi inquadrarlo, come se fosse solo stanco. La Rai sapeva che la gente sapeva, ma l'importante era salvare le apparenze.

Con Bertoli tutto questo castello di ipocrisia veniva infranto di colpo. Racconta Giancarlo Governi che quando alla RAI gli portarono il suo primo disco, lo ascoltò e affascinato da Eppure soffia decise di farlo partecipare allo spettacolo “Canto per la libertà” che si registrava a Bologna. Ma chi gli aveva portato il disco si mostrò impacciato, titubante e spiegò che quel ragazzo dalla voce così bella e profonda aveva un problema. E glielo descrisse. Governi decise che quello non poteva e non doveva essere un ostacolo e Bertoli si presentò sul palco. Era il 1976.

Da allora, credo, prese coraggio e decise di ribaltare il concetto corrente che il cantautore è uno che sta ritto sulle proprie gambe, che si muove di qua e di là, che esprime rabbia anche con il corpo (“io ne ho uno stortignato”, diceva con quel suo sorriso saggio). Quella rabbia, Bertoli la esprimeva con la sua voce scura, di ferro, con parole dure e dirette, con l'ideologia di un ribelle che dalla sua sedia a rotelle tutto vede e tutto trasforma in messaggio privo di sdolcinature. Con dietro il pensiero maturato in una terra, l'Emilia, che ha sempre combattuto per giustizia e libertà, contro ipocrisie di preti e benpensanti.

E dura era stata la sua vita a Sassuolo, il paese delle piastrelle, dov'era nato il 5 novembre del 1942. Dura come lo è in ogni altra parte d'Italia quella di un handicappato. Ma non si era mai pianto addossato e semmai si era battuto con forza contro le barriere architettoniche e contro il concetto che uno come lui è sfortunato (“io sono un rompiscatole”, ripeteva). Uno è così, e basta.

Aveva scoperto la musica grazie ad un fratello che suonava in un gruppo rock. A 23 anni aveva imparato a suonare la chitarra e a scrivere versi su un quaderno. Versi divenuti poi canzoni. Canzoni “a muso duro”, come recitava quella con la quale chiudeva i suoi concerti. E a muso duro era la canzone sull'aborto, Certi momenti, nella quale raccontava di una ragazza di fronte alla decisione di abortire. “i padri han biasimato la tua azione/la chiesa ti ha bollato d'eresia”. No, non le mandava a dir dietro, Pierangelo Bertoli, che trovò in Fiorella Mannoia la voce che cercava per un duetto nel brano Il pescatore. In sala d'incisione non si incontrarono, perché ognuno incise la sua parte, separatamente. Si conobbero dopo e nacque una grande amicizia. Come nacque con Ligabue, del quale incise un brano quando il rocker di Reggiolo non lo conosceva ancora nessuna. No, non le mandava a dir dietro, anche se non faceva solo canzoni politiche (però “vivere significa lottare”, sosteneva) ma appariva come l'ultimo cantautore politico, in un momento nel quale il cosiddetto riflusso aveva spezzato le gambe alla canzone di protesta. A sorpresa decise di andare a Sanremo e questa volta, era il 1991, da parte della Rai non vi furono infingimenti: lo mostrò per quello che era e lui cantò Spunta la luna dal monte, insieme ai ragazzi sardi dei Tazenda. Ruppe così con l'intransigenza dei cantautori verso il Festival, si classificò al quarto posto, dimostrando al pubblico impellicciato e in smoking che uno di sinistra, che fa canzoni politiche, non mangia per forza i bambini né fa la pipì sulla testa degli spettatori. Ed è capace di fare poesia e di attingere anche alla grande pietanza del folklore. Vi tornò l'anno dopo, per cantare Italia d'oro, in consonanza con la denuncia delle ruberie che “mani pulite” andava scoprendo e perseguitando. Chissà se il governo d'oggi non avrebbe voluto metterlo sotto inchiesta per quella canzone “giustizialista”. Sposato e padre (definiva suo figlio “un rockettaro”), non si era certo risparmiato in questi trent'anni di musica, senza mai però chiedere comprensione o pietà. Ti guardava con quella sua faccia vera, con quegli occhi che comunicavano verità ma con una pacatezza che esprimeva saggezza e affetto anche per coloro che, magari senza badarci, potevano offenderlo con un atteggiamento sbagliato. Insomma, non riversava nei concerti e nelle canzoni la sua condizione di handicappato. Penso che, pur comprendendo coloro che arrivavano a farlo, un simile atteggiamento gli facesse schifo. Tuttavia, chiedeva molto a sé stesso e alla sua condizione. “Guidavo fino a 800 chilometri al giorno e fumavo come un turco”, disse un giorno a un intervistatore. “Oggi il corpo mi da qualche segno di stanchezza, e a ragione”. E il corpo lo ha tradito all'età di sessant'anni, prossimo ad un nuovo compleanno. Se n'è andato in silenzio e penso ad altri cantautori la cui malattia era già un grande evento mediatico e c'erano decine di telecamere pronte a registrare le ultime note di una vita di canzoni. Credo che lui non desiderasse questo, da persona seria. Che è giusto piangere come uno di noi, di quelli che credono ancora che nessuna canzone possa cambiare i destini del mondo. Ma ci provano eccome.

Leoncarlo Settimelli – L'UNITA' – 08/10/2002

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