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CINEMA

Quelli che sognano

“Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri”, faceva dire Jean-Luc Godard in coda a un suo film. Ma nel Sessantotto il mondo e lo sguardo che lo accoglie si dissociano, l'armonia è una cosa del passato. Come se il sogno (quello del cinema) urtasse contro un altro sogno più vasto e ancora informe, non per separarsene, ma per frantumarsi e irradiare. Ecco, tra il cinema della Nouvelle Vague, annunciatore degli états généraux du cinéma, e la rivolta del '68 a Parigi (preceduta dalla grande mobilitazione antigovernativa contro l'allontanamento del direttore della Cinémathèque Henri Langlois) possiamo situare quello che ancora Godard affida a un'altra vice off, quella di Jean Pierre Lèaud in Il maschio e la femmina (1966): “Andavamo spesso al cinema, lo schermo si illuminava e noi fremevamo, ma più spesso ancora Madaleine e io eravamo delusi. Le immagini erano tristi e traballavano, e Marylin Monroe era terribilmente invecchiata. Eravamo tristi, non era il film che avevamo sognato, non era quel film totale che ciascuno di noi portava in sé, quel film che avremmo voluto fare o, più segretamente senza dubbio che avremmo voluto vivere”. E' questo, esattamente, il preludio ideale all'ultimo film di Bernardo Bertolucci, Dreamers, i Sognatori, o, come meglio traduce il titolo francese, Quelli che sognano.

La storia è ormai nota. Nel 1968, a Parigi, tre giovani cinefili, fratello e sorella gemelli, più un loro coetaneo americano, nell'appartamento del quartiere latino libero della presenza dei genitori e via via trasformato in una sorta di set cinematografico, vivono una passione in cui l'espressione più libera della sessualità e dell'immaginazione li porterà a un eccesso oltre il quale si ritroveranno adulti. Denominatore comune dei lori esperimenti trasgressivi (tra Les enfants terribles di Jean Cocteau e L'histoire de l'oeil di George Bataille) è il cinema, fonte di giocio e conosceza che nel film permette di mostrare spezzoni di film del passato (da Samuel Fuller a Godard, da Keaton e Robert Bresson, etc.) in un gioco incrociato di nostalgie e mimesi, sogni che si moltiplicano e rifrangono. Come nella poetica delle Nouvelle Vague, appunto, l'armonia è consegnata alla memoria di un cinema che ancora coincideva col sogno, o in quella di un sogno a venire, un desiderio che non teme di correre il rischio di affidarsi a se stesso per diventare politica. La pietra, il pavé che infrange la finestra e li sveglia da un sogno esclusivo, introdurrà i tre giovani in un sogno più grande e condiviso, come la strada, la città, il mondo. Di questo racconta i Sognatori di Bernardo Bertolucci. Risultato: una festa per gli occhi di chi lo guarda, avendo ogni inquadratura la forza e la pretesa del desiderio, dilatato da una colonna sonora splendente: Janis Joplin, Jimi Hemndrix, Bob Dylan, i Doors, e l'urlo finale di Edith Piaf....

Incontro il regista nella sua casa romana, a tre giorni dall'uscita pubblica del film. Parliamo, naturalmente, del '68. “Il mondo in cui viviamo oggi – dice Bertolucci – è un mondo il cui disegno è iniziato negli anni Sessanta, di cui il '68 è uno degli elementi, è che secondo me continua fino alla morte di Pier Paolo Pasolini e di Aldo Moro. Nel '68 io ero Roma, stavo facendo il mio film sessantottino, Partner. Il mio testimone in diretta degli eventi parigini era Pierre Clementi, che ogni week.end andava e tornava da Parigi portandoci i dettagli più freschi, l'ultimo slogan, gli Etats généraux du Cìnéma, il teatro dell'Odéon occupato...Avendo già vissuto anni prima quella temperatura e quell'estremismo), trovavo i miei amici (come Godard) più disarmati, più ipnotizzati dal fascino del timoniere col Libretto Rosso, e infatti aderirono alla Cina di Mao. Era soprattutto il loro anticomunismo a non convircermi, e per reazione decisi di iscrivermi al Pci (l'unico partito che ho votato, anche dopo che ha cambiato nome). Certo, ero affascinato dal grande spettacolo di strada di quel periodo, ma con la ragione vedevo tutti i pericoli che presto avremmo conosciuto. Quanto al film che stavo girando nel maggio '68, Partner, il mio atteggiamento sospettoso nei confronti dei colleghi maoisti mi aveva portato a trattare il tema del “doppio” trasgressivo, ispirato al Sosia di Dostoevskij. Se oggi rivedessi Partner, probabilmente scoprirei, oltre alla mia dichiarazione d'amore globale per Godard, anche un certo distacco, il film mi sembrerebbe freddo. Diciamo la verità: Dreamers è il film che non sono riuscito a fare nel Sessantotto”.

Forse quella freddezza è ora il rigore formale, la contemplazione desiderante che è il fascino dello sguardo della macchina da presa in Dreamers, e che ha così indispettito i francesi da aver parlato di “concupiscenza”. Oppure (come se fosse una colpa) l'accusa di spiegare il '68 con la sessualità, dimenticandosi che togliere le barriere tra il privato e il politico era una delle conquiste culturali del '68...

“Ero molto sorpreso, per non dire imbarazzato, di leggere sull'autorevole Le Monde quella recensione che faceva uso della parola “concupiscenza” (che non udivo dagli anni '60, appunto), con la conclusione che se i ragazzi della storia non erano perversi, o non riuscivano a esserlo, l'unico perverso ero io che avevo un atteggiamento da voyeur. Imbarazzato anche dal parlare di voyeurismo in modo così primitivo, come se fosse un “peccato”; quando sul voyeurismo c'è anche una battuta nel film, ti ricordi – il ragazzo americano che dice all'altro: “dietro ogni regista c'è un voyeur, il bambino che spiave i genitori nella camera da letto” – ovvero quell'immagine tremenda ma da cui non riesci a distogliere lo sguardo, la scena primaria, come si dice. Il che evoca un'idea del cinema come una sorta di coazione a ripetere quella scena che tutti noi, in qualche modo, abbiamo vissuto”. (Nel film, la risposta dell'altro ragazzo è: I miei genitori lasciano sempre la porta aperta. Non farò mai del cinema”. E l'altro prontamente: “Beh, allora farai del teatro”). “Quanto alle altre accuse, mi chiedo: perché è così difficile ammettere uin fatto così evidente e innegabile, ovvero la rivoluzione che gli anni Sessanta, e il '68 in particolare, hanno creato nei rapporti personali, nel rapporto uomo-donna, nei rapporti di entrambi verso la società? Forse questo rientra in una strategia, non so quanto conscia, del voler “rivedere” la storia; magari da parte di quelli che nel '68 c'erano, ma non sono riusciti a vederlo in prospettiva, e forse erano dei semplici casseurs...”

Ma il sogno resta. E anche nello stile Dreamers sembra rivendicarlo...

“Sì, e non dobbiamo chiuderlo. Senza sogni si corre il rischio di impazzire, e i modi sono tanti...Quelli che sognano, sono onnivori, proprio come nei sogni. Non vedono differenze tra la politica, la musica, il rock, il cinema, l'amore, i gesti...E il loro continuo mettersi in scena, che fanno tutti e tre i personaggi – sia per gioco di ripetizione del tanto amato cinema, sia senza rendersene conto – rivendica la libertà del sognare...E come loro il mio cinema non ha mai saputo resistere al piacere della contaminazione, in senso sia attivo che passivo. Ho sempre rivendicato il diritto di cambiare registro, e nei momenti più gravi di un film anche quello di buttare tutto all'aria con una gag comica...Insomma, contaminazione vuol dire il diritto di andare contro le regole imposte dall'accademia; mescolare i genrti, i sottogeneri. Ricordo che trovai questa idea anche leggendo Il piacere del testo di Roland Barthes...In politica, un grande dreamers, morto di sogni, era Enrico Berlinguer, morto nel sogno del compromesso storico. I sognatori devono essere capaci di visionarietà, qualcosa che oggi ci manca molto. I grandi sognatori sono contagiosi. Quanto all'idea che “l'immaginazione al potere”, lo slogan del '68, si sia realizzato in modo perverso con Berlusconi, non riesco ad accettare un'idea così tragica. Lui è la fine del sogno, la negazione del sogno. E non è neanche uno coi piedi per terra. Che cosa è?...”.

Parliamo del tempo, della memoria.

“I giovani di Dreamers (gli splendidi Eva Green, Louis Garrel, Michel Pitt) sono tre ventenni di oggi che ho catapultato nel '68. E' molto sottotraccia, ma uno dei sentimenti del film è la scopetta di un mondo che non conoscevano attraverso un corpo a corpo tra loro, oggi, e i personaggi di allora. Ho cercato di mantenere questa ambiguità. Giovani di oggi che si confrontano con giovani di ieri, in una catena di confrontazioni rilanciate anche dall'imitazione dei film citati. Le citazioni sono a volte sinapsi nel tessuto del mio film, che lo agiscono e lo sollecitano. Fino allo sprint del Louvre, quella corsa nel museo per superare il record della corsa di Jean-Pierre Léaud in Bande à part di Godard...A proposito: hai mai notato che Bande à part è il nome della casa di produzione di Quentin Tarantino? Lui è un dreamer, non c'è dubbio, basta vedere come esegue i remake di generi e sottogeneri, come nel suo ultimo film. E a proposito di citazioni. Quando ho chiesto il permesso a Godard di utilizzare suoi frammenti, mi ha detto: “puoi fare quello che vuoi, non esistono diritti d'autore, ma soltanto doveri”.

Ora, mentre ricopio queste frasi nel mio studio, poso lo sguardo sulla locandina originale di masculin féminin di Godard, 1966. Sopra le testa di Jean-Pierre Leaud, racchiusa nella grafica a forma di calice, la scritta: “il sesso e la gioventù francese di oggi”. Ma che cosa è, oggi? Forse il tempo non esiste, come ha detto il regista nella conferenza stampa al Festival di Venezia, o comunque è una faccenda troppo complessa da liquidare in termini di passato e di presente. Dreamers, mi dice Bertolucci, “è un film sul presente, sull'oggi”. E non tanto per la carica finale della polizia che ricorda quelle di Genova: lo è nello stile, tutt'uno con la storia che racconta. “Come se si potesse annullare il tempo, e come se tutto fosse contemporaneo di tutto”. Tutto questo c'entra col Sessantotto. Essa fu precisamente quel dispositivo che nell'estetica, nel fare arte e letteratura, diede valenza politica a scelte di stile un tempo legate all'avanguardia, e che anzi liquidò il concetto stesso di “avanguardia”, legato a una vecchia idea di tempo; valorizzato insieme la memoria – anche quella presente – e i conflitti, modi di crescita personale. Ho avuto Venezia l'onore inaspettato di essere citato da Bertolucci, la frase di un mio racconto su Big Sur dove si dice che “è grottesco accorgersi del passare del tempo. Come cercare di nuotare in un lago di marmellata”. E' a partire dal '68 che acquista senso e ampiezza lo slogan mutuato dall'arte contemporanea, now is paradise, adesso è il paradiso, ciò che arriva adesso, qui. Per questo è importante il modo con cui Bertolucci propone di redimere i più giovani della loro nota smemoratezza, e che consiste nel “vedere nelle generazioni più giovani una grazia, una capacità di vivere il presente e di muoversi nel presente che noi, che di memoria ne avevamo tanta, non abbiamo mai conosciuto. E' vero che i giovani sono molto fragili davanti, per esempio, al fascismo, che sono disarmati dall'assenza di memoria. Nello stesso tempo è vero che camminano nel presente come noi non siamo mai riusciti a fare. In cinese si direbbe: “si muovono come meravigliosi pesci nell'acqua”.

Beppe Sebaste – L'UNITA' - 08/10/2003

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