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Intervista a Marcello Fois



Marcello Fois, laureato in Italianistica, nato a Nuoro nel ’60, ma residente a Bologna da molti anni, è un autore prolifico, non solo in ambito letterario in senso stretto, ma anche nel campo teatrale, radiofonico e della «fiction televisiva».

Può dirsi, a dispetto della giovane età, uno scrittore «a tempo pieno»: uno dei pochi, in Italia; ed è anche uno dei pochi autori italiani contemporanei conosciuto fuori dai confini nazionali, le cui opere vengono tradotte in molte lingue.

D. Lei è conosciutissimo come «giallista», in realtà non è mai stato solo scrittore di gialli: Picta, con cui ha vinto il Premio Calvino nel ’92, è un romanzo ambientato nel mondo dell’arte. Pensa che nel suo futuro ci sarà ormai spazio solo per la letteratura gialla?

Non mi sono mai posto il problema del «genere». Credo che sia il genere stesso che in qualche modo ti sceglie, tutto quello che viene dopo nasce dall’esperienza. Io poi, credo di essere giudicato poco giallista da coloro che scrivono gialli, e troppo giallista da tutti gli altri. In realtà, ho un’idea dello scrittore a «360 gradi», e in questo senso il giallo può essere una specie di passe-partout per colpire più facilmente la curiosità del lettore. Penso al libro «millefoglie». Fatto il primo passo, chi legge si troverà ad affrontare una serie di gradi, di livelli, in ordine d’importanza letteraria: da quello più superficiale della pura vicenda, dell’intrigo, fino a quello più profondo della costruzione psicologica del personaggio. Il «giallo» è un genere che si potrebbe definire popolare, d’approccio, ma all’interno si possono inserire anche spazi di alta letteratura.

E comunque, ormai nessuno parla più, come si faceva in un recente passato, del genere giallo come di letteratura di serie B. Gli esempi recenti o più lontani che smentiscono questo pregiudizio sono molti.

D. Quando e come ha deciso che nella vita avrebbe «fatto lo scrittore»?

La letteratura mi fa star bene. Se dovesse trasformarsi in qualcosa che mi fa male, smetterei subito.

In ogni caso, credo abbia deciso il destino per me: io sono un pigro e soprattutto non mi sono mai creato aspettative particolari sul futuro dei miei scritti. Paradossalmente potrei dire che la letteratura non è la cosa più importante della mia vita. Diciamo che non sono uno scrittore ansioso, e credo che questo mi abbia portato fortuna. Nell’aprile del ’92, proprio nello stesso giorno, mi comunicarono che Picta era entrato nella finale del Premio Calvino (poi risultò vincitore n.d.r.), e l’Editore L. Bernardi, a cui avevo consegnato la mia unica copia di Ferro recente, mi annunciò l’intenzione di pubblicarlo. Ho pensato che fossero segni inequivocabili. Comunque, penso che scrivere e basta, non sia sufficiente. Bisogna vivere esperienze diverse, anche lavorative, e soprattutto, bisogna calarsi completamente nella vita: ascoltare le cose per poterle riprodurre nella letteratura. Non credo molto nello scrittore appartato, avulso dalla realtà.

All’inizio poi, puntare tutto su una professione così difficile è pericoloso: continuare a svolgere un altro lavoro può servire a non subire certi ricatti editoriali…

D. Se non sbaglio lei ha fatto parte del famoso «Gruppo dei tredici» di Bologna, definiti da qualcuno: «gli scannatori». Esiste ancora questo gruppo?

Il «Gruppo dei tredici» non ha statuto, quindi esiste sempre, non si è mai sciolto; anzi si è sviluppato nell’Associazione Scrittori di Bologna, e ne costituisce il nucleo originario, in cui l’aspetto predominante è il comune interesse letterario. In gran parte, si tratta di giallisti o di «noiristi», o, meglio ancora, di scrittori d’inquietudine. Oreste del Buono l’aveva definito a suo tempo: «L’applicazione del modello emiliano alla letteratura». Inizialmente, infatti, il gruppo era una specie di cooperativa, in cui autori più o meno affermati, facevano da «levatrici», nel senso migliore del termine, ad altri autori che ancora non avevano trovato un proprio spazio. Talvolta, invece, anche ora si cerca di convincere scrittori senza spessore, che la letteratura non è tutto e si possono fare altre cose. Non si tratta comunque di un «clan», come qualcuno ha malignamente insinuato: non c’è proprio nulla di «mafioso» nel gruppo. Il gruppo ha piuttosto inventato una regola di convivenza: al suo interno ci si vuole bene, si cena insieme; paradossalmente la letteratura potrebbe sembrare un aspetto quasi secondario.

D’altra parte, l’Emilia è stata il centro del ribollire letterario degli ultimi vent’anni: lo stesso Camilleri- che è una specie di «tredicista» d’adozione- è passato di qui, vincendo a Bologna il «Police Film Festival», premio istituito dalla Polizia per premiare gli scrittori di polizieschi. Tra i componenti del gruppo, Cacucci ad esempio, non è emiliano, e io nemmeno: mi pare significativo.

Invece non ho mai sentito parlare della definizione di «scannatori». Certo, tra noi, qualcuno-dovrei dire: io stesso-ha scritto in tempi non sospetti, romanzi che adesso potrebbero essere definiti «pulp».

D. Nel suo romanzo Meglio morti, alcuni capitoli sono preceduti da citazioni colte; una mi ha colpito particolarmente, è di Pascal e dice: «Ci sono solo due specie di uomini: gli uni, giusti, che si credono peccatori, gli altri peccatori, che si credono giusti.» Si tratta di una frase funzionale alla storia, o significa di più per lei?

E’ funzionale alla storia perché fa riferimento alla naturale ambiguità dell’agire umano: è la vecchia faccenda che la verità oggettiva è introvabile. Ma è anche importante in sé, perché è, in fondo, la storia di tutti i libri. Da questo concetto si dipartono tutte le trame e si costruiscono tutte le varianti della letteratura.

Nei miei libri poi, talvolta gli stessi personaggi ripetono, in qualche modo, le citazioni.

D. Nei libri ambientati nella Barbagia della fine dell’ottocento: Sempre caro e Sangue dal cielo, i suoi personaggi parlano un italiano impastato, se così può dire, con frasi dialettali. Anche Camilleri ha compiuto un’operazione letteraria simile alla sua oppure ritiene che ci siano delle differenze?

La differenza sta essenzialmente nel fatto che io non parlo l’italiano o il dialetto, ma parlo due vere e proprie lingue. Il nuorese, fino all’età scolare è stata la mia unica lingua, e spesso mi rendo conto di pensare in sardo. Camilleri, in fondo, si può dire che abbia costruito un siciliano quasi «virtuale».

In realtà, i personaggi dei miei libri che parlano in sardo, non potrebbero fare altro. Io ho scritto in dialetto quando certe frasi erano intraducibili, ma essenziali in bocca al personaggio.

Credo che «una lingua in più», non sia un disvalore, non voglia dire provincialismo: al contrario; e poichè l’Italia è anche
molteplicità di espressioni e di espressività, semmai può essere solo un elemento che accresce la cultura. Si può fare una
letteratura nazionale, senza usare una lingua nazionale.

Infatti, io ho scritto anche GAP (selezionato a suo tempo per il Premio Strega n.d.r.) che è ambientato nella bassa ferrarese, la terra di mia moglie, e naturalmente, alcuni personaggi parlano con le inflessioni del luogo.

D. La natura gioca un ruolo importante nei suoi romanzi. Pare che i suoi personaggi ne siano impregnati, tanto da esserne quasi imprigionati.

La natura è un personaggio. Un personaggio molto invadente, che ha istanze proprie: fa domande e vuole risposte.

La cultura sarda è caratterizzata da una profonda riconoscenza, ma anche da un profondo astio nei confronti della natura: il
nostro ambiente è bello, ma non facile per chi lo abita.

Per esempio: Sangue dal cielo è tutto costruito sotto la pioggia proprio per mettere in crisi il personaggio. Questo è il mio modo per rendere credibile e verosimile la letteratura, in modo da non imbrogliare il lettore il quale vuole riconoscere in essa le proprie personali esperienze.

D. Fra poco inizierà la seconda serie della fiction televisiva: Distretto di Polizia. Mi sembra che lei ne sia l’ispiratore e lo sceneggiatore. Inoltre si è anche occupato di teatro. Le interessa di più scrivere per il teatro tradizionale, per la televisione, o magari per il cinema?

Per la prima serie ho scritto cinque puntate su ventiquattro e sono stato story editor di tutto l’intero ciclo. Nella seconda serie, che hanno appena iniziato a girare, avverrà più o meno lo stesso.

Per quanto riguarda il teatro, ho scritto molto, soprattutto per il Teatro per Musica: ad esempio Tanit, insieme a Valerio Evangelisti, con le musiche di F. Festa. Sto anche scrivendo per Radio Rai. Comunque non ho preferenze, mi basta capire le differenze che esistono tra i vari tipi di scrittura: esiste una scrittura per il cinema, una per la televisione, una per il teatro… Certo, continuo a preferire la letteratura vera e propria, perché mi responsabilizza di più: le altre scritture contemplano una coralità di interventi: devono necessariamente essere più duttili.

D. In questo momento sta lavorando al suo nuovo romanzo, può anticiparci qualcosa?

Dovrebbe uscire tra maggio e giugno per Einaudi: si chiamerà Dura madre e sarà il terzo volume della tetralogia contemporanea che già comprende Ferro recente e Meglio morti.

Della tetralogia antica, sono già editi: Sempre caro e Sangue dal cielo; a fine anno uscirà il terzo romanzo.

Si tratta, nel suo complesso, della storia di un luogo vista attraverso un secolo, e attraverso quattro romanzi che raccontano il passato e quattro che narrano il presente degli stessi posti, con tutti i mutamenti sociali e ambientali che ci sono stati. Tra i due cicli ovviamente c’è un’enorme differenza anche linguistica. Io sono un autore progettuale: devo lavorare per grandi sistemi e avere sempre davanti a me l’intera storia nel suo svolgersi. Costruisco per il futuro.

Milano, 24.02.2001




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