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Carlo Lucarelli

Panorama – 10/01/2002

Papà è innocente, parola di giallista

Una storia difficile da raccontare, quella di suo padre, Guido. Una storia che sembra uno dei suoi romanzi. Carlo Lucarelli, uno dei più apprezzati giallisti italiani, accetta di parlare della vicenda di suo padre, un medico noto a livello internazionale, finito alla sbarra per la morte di alcuni pazienti all'ospedale di Pesaro. “Per questo non sono ancora riuscito a raccontarla” dice lo scrittore. “Sono coinvolto emotivamente, rischio di non essere obiettivo. E non posso raccontarla con le categorie del giallo, con la fantasia...”.

Però ha tenuto un dossier, ha seguito i fatti, ha fatto indagini...

Sì, e alla fine di tutto probabilmente scriverò un libro con mio padre. E' una vicenda strana, quella della malasanità, che non riusciva a spiegare i fatti. Io invece sono giunto a credere che si sia trattato di un sabotaggio.

In base a che cosa?

E' un ipotesi che regge, che chiarisce. Ci sono testimoni, c'è una portantina che arriva in un momento in cui nessuno ha chiaro come si possano infettare le flebo senza che si veda il sangue, e lo spiega, perché a sua volta l'ha sentito dalla collega Guiducci.

La portantina però è considerata una mitomane.

Io la considero attendibile. Perché racconta in modo umanamente convincente, perché quando è intercettata telefonicamente, senza saperlo conferma tutto alle persone con cui parla; e poi perché le rivelazioni che ha fatto le hanno procurato solo danno. Ha ricevuto minacce e insulti.

Come spiega il suicidio di Claudio Guiducci, l'infermiere che la portantina racconta di aver visto sottrarre provette di sangue infetto?

Un suicidio strano, anomalo. E tanto più strano il fatto che il procuratore Gaetano Savodelli Petrocchi non abbia ritenuto necessaria l'autopsia. Ha deciso che Guiducci era depresso, perché considerato “l'untore”; anche se, in aula, la moglie ha negato che fosse depresso. Un po' più di indagini su quella morte si sarebbero dovute fare.

Che cosa c'era di strano in questo suicidio?

La posizione del corpo: Guiducci si è impiccato ma toccava terra con i piedi: ai primi sintomi di soffocamento gli sarebbe bastato raddrizzare le ginocchia. Ma la corda è stata bruciata. E poi il farmaco che aveva accanto, un antidepressivo che mantiene svegli; il biglietto lasciato, scritto in stampatello, freddo, su cui nessuno ha mai fatto una perizia calligrafica. E infine la porta del magazzino dove è stato trovato il corpo, chiuso dall'esterno; dall'interno si apriva con un maniglione antipanico. Poi magari tutto si spiega: la stanza, dicono, si poteva chiudere anche dall'interno, ma adesso non si può più provare, perché la porta è stata sostituita.

Perché mai il procuratore e il pm avrebbero dovuto opporsi alla spiegazione del sabotaggio, se c'erano tante prove?

Loro non l'hanno neanche presa in considerazione. Il pm Maria Letizia Fucci è un pretore che si occupa di cause di lavoro, che ha subito imboccato la strada della “colpa al datore”. Poi in un periodo in cui non si parlava di ecoterrorismo, l'ipotesi del sabotaggio poteva sembrare strana.

Però non hanno fatto l'autopsia, non hanno interrogato subito il portantino, non hanno intercettato da subito le sue telefonate...

Questa storia va vista sotto una luce diversa. Se si considera che un uomo, o più di uno, per rovinare mio padre posso decidere di uccidere nove persone, allora tutto diventa improbabile, perché presuppone l'esistenza di un pazzo omicida. Se invece si ipotizza quanto successo come un modo per rovinare l'ospedale cercando di provocare una semplice epidemia di epatite, allora la ricostruzione può essere diversa. Se qualcuno decidesse di rovinare mio padre, forse farebbe proprio così: una sciocchezza, una trasfusione sbagliata, i pazienti si beccano l'epatite e l'ospedale chiude. Forse, alla peggio, ne muore uno. Ma se sono abituato ad avere a che fare con la vita e la morte, come succede in quell'ambiente, forse questa morte si può anche mettere in conto. Magari mettendo in conto un solo decesso, e non addirittura una strage.

Manca ancora un movente.

Il reparto ha avuto molto oppositori. Nella ricerca ci sono invidie e girano finanziamenti miliardari, che se vanno a uno non vanno all'altro. Poi mio padre ha avuto problemi con medici allontanati dal reparto, aveva ricevuto minacce, gli era scoppiato un petardo in ufficio qualche giorno prima delle morti.

Sono i dubbi di un romanziere o di un figlio?

Io non sono obiettivo su questa storia. Questa è la premessa essenziale. Per questo non ne parlo, non ne scrivo. E prima che scrittore sono figlio. Un figlio che è abituato a vedere il babbo in un altro modo. Era quello che, quando avevo dieci anni, arrivava a casa triste e non gli si poteva parlare perché stava facendo le prime sperimentazioni della cura contro la talassemia e aveva bambini della mia stessa età che morivano. Ho visto quanto è stato importante per lui il lavoro, tanto da mettere in gioco la stessa famiglia, il rapporto con mia madre. Gli è costato caro. Crescevo e vedevo che, piano piano, invece che essere dieci pazienti a morire erano dieci a guarire. E l'ho visto sorridere. Lui e i suoi collaboratori hanno cambiato il corso storico di quella malattia.

Perché ha deciso di parlarne ora?

Perché anch'io adesso ho bisogno della verità. Non solo per l'ospedale, ma per le nove vittime, per mio padre, per la famiglia del portantino Guiducci, che ha diritto di sapere come sono andate le cose. Ma qualunque decisione prendano i giudici, c'è una cosa da tener presente. Al tempo delle morti il reparto si era reso autonomo, stava intessendo relazioni con paesi di tutto il mondo; poi stava cominciando a costruire la Scuola di talassemia, un progetto enorme che dovrebbe portare una serie di medici a Pesaro per studiare la cura della malattia. Progetto che ha ricevuto adesso il finanziamento, oltre 36 milioni di euro dal governo. E' una cosa che comunque sta andando avanti. Ma se l'epidemia non ci fosse stata, il progetto sarebbe già attivo da un paio d'anni.

Come è cambiata la vita di suo padre dopo questa vicenda?

E' cambiata la vita di tutto l'ospedale. Lì bisogna ragionare a livello di reparto, non solo personale. La vita di tutti è cambiata. I trapianti però si continuano a fare, a livello internazionale, nella comunità scientifica, il problema dell'epidemia è stato accantonato.

Come pensa che finirà il processo?

Non lo so. Ma mi aspetto che venga fatta chiarezza. Se dovesse concludersi con l'assoluzione di mio padre, allora qualcuno dovrà avere il coraggio di procedere per strage. E chiedersi ancora che cosa è successo per nove morti, per un suicida, e per tutti quei bambini che non sono stati trapiantati di midollo in questi tre anni.

Intervista di Anna Boiardi – PANORAMA – 10/01/2002

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