MAURIZIO MAGGIANI

Il Secolo XIX 25/02/2001

Io ci vado



Io ci vado. Jimi Hendrix e Johann Sebastian Bach buonanime - Iddio conservi accanto a sé le loro anime per l'eternità - pensino quello che vogliono ma io ci vado. E nel farlo so che non li tradirò. E non tradirò me stesso, questo è poco ma sicuro, perché tra le tante cose che sono, sono anche questo: io sono il Festival di Sanremo. Ho una sola paura: che andandoci, io che non ci sono mai stato, mi risulti meno familiare e persuasivo di come sarebbe giusto che fosse. La canzone melodica italiana è parte dell'italico genoma, è iscritta nel DNA vostro e mio.

Io per me poi, sono un caso speciale. Sono praticamente cresciuto dentro ad una radio. Quando al mio paese non c'era ancora l'acqua nei rubinetti e la luce nelle strade, c'era in casa mia una grande radio Allocchio Bacchini, vanto della famiglia, lusso della cucina. Dentro quella radio c'era il mondo, tutto ciò che dal mondo poteva arrivare agli orti di Castelnuovo. Il mondo era fatto di fruscii, musica e canzoni. Soprattutto canzoni. Fatte di una musica che anche un bambinetto poteva imparare senza gran sforzo e lallare e - non appena carpito il segreto ai più grandi della sua banda - fischiettare. Fatte di parole grandi e misteriose, dentro la musica evocativa di ulteriori e misteriose assonanze, dolci e tremende, da ridere o da piangere. Torna ogni vela e tu non sai tornare sono rose rosse e parlano d'amor ma per salvar quell'uomo non c'è nessuno.

Stupidaggini. Forse. Un sillabario fantastico della vita così come poteva essere fantasticata da un bambino di campagna nel cuore degli anni Cinquanta. Che da quella radio aveva pur sentito una mattina, mentre inzuppava il biscotto della salute nel latte e orzo, una voce gracchiante ed ansimante dirgli da un posto così lontano da non sembrare vero: vi parlo mentre sparano giù in strada i cannoni della difesa cittadina. All'alba i carri armati sono entrati in Budapest…Ma da quella radio sentiva, infinitamente più vicino, il richiamo che lo riportava a casa: lo sai che sei nata paperina, che cosa ci vuoi far così è la vita.

E le notti di Sanremo quelle notti poteva stare alzato fin che voleva. Fin che poteva, in realtà: fino a quando il sonno traditore non lo prendeva all'improvviso e lo costringeva a posare il capo sulla tovaglia e già lì sognare tra le briciole di pane l'amor, la gioia ed il dolor.

Non ho mai visto il Festival, ma non credo di essermelo mai perso un anno, mai. Voglio dire che non ho mai acceso la televisione ma ho sempre acceso la radio quella sì, le molte radio che sono venute dopo l'Allocchio Bacchini. Non ho mancato di farlo neppure in piena rivoluzione culturale, a costo di risultare ad orecchi indiscreti un traditore. Non ho smesso neppure quando giravo l'Europa sul scia del rock and roll e del blues, o mi camuffavo da giovine da bene per accedere, indebitato fino al collo, al programma economico di Salisburgo.

E devo dire che per quarant'anni non è mai successo che non ci fosse anche una sola canzone lì che non valesse la pena di avere ascoltato e, magari, avere imparato a canticchiare, anche senza volerlo davvero. Per il semplice, primitivo richiamo genetico della vecchia stupida voglia di melodia.

E ci sono stati anni in cui alla melodia si è piegata gente non da poco, parole non da sciocchi. Musicisti, poeti e cantanti che è stato un onore ascoltare anche lì, in mezzo al mare di garofani olezzante di amor gioia e dolor.

La verità è che da Sanremo sono passati tutti e tutto: suorine e anarchici, orfanelle malgasce e regine del vizio, grandi artisti e squallidi affaristi. Perché Sanremo è l'unico vero luogo della cultura nazional popolare di questo paese. E siccome è questo, è splendore e miseria, slancio e arretratezza, arte e infamia. MI azzardo a pensare che se un anno capita di non sentire a Sanremo una sola canzone decente, si può star tranquilli che quell'anno di decente non è successo niente neppure nel Paese.

E comunque ci vado. Fosse anche solo per constatare che fino ad oggi ho vissuto in un altro mondo, prigioniero di una radio.

Maurizio Maggiani - IL SECOLO XIX - 25/02/2001