MAURIZIO MAGGIANI

Il Secolo XIX – 28/06/01

La bella lezione dei ragazzi di Manu Chao

Mi fanno male i piedi, ho i muscoli delle gambe anchilosati e gli occhi pesti, probabile che ci ho lasciato un anno di vita in una serata, ma sono contento di esserci stato anch'io al concerto di Manu Chao. Non l'ho fatto per lavoro, né per curiosità, ma per piacere. Mi piace la musica, e tra la musica anche la sua. Mi piacciono i concerti ed erano vent'anni che non varcavo il sacro recinto di bibitari, porchettari e magliettari per godermene uno. Avevo giurato che non l'avrei fatto. Ho giurato sul campo di Marassi, appunto, vent'anni fa, alla fine del concerto di Frank Zappa. Adoravo Frank Zappa, ma quella sera il Marassi assomigliava troppo da vicino a un campo di concentramento: poliziotti in assetto di guerra, barriere di rete metallica, cani anti sommossa, e disperati; disperati vagolanti e senza sguardo, senza vera voglia di musica, senza vera voglia di vita. Chiuso, mi sono detto, è finita un'epoca, è finita una generazione, è finito un modo della musica. Bruttissimo addio agli anni '70 e alla mia giovinezza speranzosa.

Con qualche epoca in più e il mal di schiena cronico, ho rotto il mio giuramento, e ho fatto bene. Mi sono divertito, come potevo ho anche ballato, e ho imparato. E se riuscirò a smaltire il ristagno gastrico degli orrendi panini che ho sbranato e il debito glicemico da stress motorio, è probabile che campi abbastanza per ricavarci una lezione. Una piccola lezione da un piccolo avvenimento.

C'erano ragazzi, un bel po' di ragazzi. A dire il vero anche il mio medico di famiglia a me noto fino a ieri per le accese propensioni juventine, e qualche altro attempato fratellino dei bei tempi andati, ma il fatto è che c'erano ventimila ragazzi. E allora? Naturale che fosse così. Sì, ma non erano in un'inchiesta, in un grafico, in un discorso, in una statistica: erano lì. In certi momenti fin troppo veri, quando si è trattato di competere con loro sul terreno dello ska, o quando da Campi si ritirava quel poco di refolo di vento e il calore umano cessava la metafora e diventava quella particolare, intensa canicola che è possibile accettare, e vivere, solo se si ha un'idea molto pratica e convinta dello “stare assieme. Erano lì, veri, e uno diverso dall'altro: questa la lezione. Non classe, non gruppo, non partito. Non una faccia che possa rappresentarne un'altra. Individui in temporanea comunità. Diverse parole, diversi sguardi, diversi abbigliamenti, età diverse – anche questo è diventato possibile: essere ragazzi sin quasi a quarant'anni – e molte storie diverse di sicuro, che stanno assieme. Miracolosamente, parrebbe. Come miracoloso deve risultare ad uno sguardo esterno il fatto che nessuno si faccia male nell'immenso corposcontro dello ska. E invece naturalmente, se lo sguardo viene dal cuore del concerto. Un concerto politico, in un mondo diverso della politica, in un diverso linguaggio. Si sono riuniti per questo: per cantare e ballare la loro politica. Che non mi pare stia in nessun posto dell'arco costituzionale, in nessun simbolo della scheda elettorale. Che io stesso so di non capire, non tutta.

Quei ragazzi uno diverso dall'altro sono una complessità Questa complessità è ignota alla generazione che potere sul loro presente e sul loro futuro, espulsa da chi li governa, estranea ai loro piani. Quei ragazzi sono “clandestini”; proprio come orgogliosamente si riconoscono cantando la canzone più ascoltata del mondo nell'anno 2000. Li chiamano popolo di Seattle quando è avvertita la necessità mediatica di chiamarli per nome, perché in realtà non sanno neppure come chiamarli. Quei ragazzi sono semplicemente trasparenti. Quello che la sinistra di governo ha saputo offrirgli è stato il caldo invito a non rompere le scatole, a sparire finché non si sarebbe provveduto. Quello che offrirà la destra lo vedranno nei prossimi anni.

Intanto loro ballano l'inizio di una novena che li porterà alla “prossima stazione”. Che è casa loro, a Genova. Diversi come sono annuiscono tutti convinti: ci saranno. Cerco di incontrare quanti più sguardi posso, quante più parole. Non trovo traccia di frustrazione, di rabbia, di vuoto, di violenza repressa; come è possibile? Non è questa la generazione del niente, non sono questi il vero problema dei potenti della Terra?

E non riconosco me stesso, né i miei vicini del concerto al Marassi di vent'anni fa. Questa non è una generazione che finisce, è una che comincia. In coda verso l'uscita mi accorgo di un'altra stranezza: non ho visto per tutta la serata un poliziotto, né un litigio per i soliti futili motivi indotti dall'alcool e della marijuana. Solo un fetentone ha cercato di passarmi avanti alla coda per il panino. Ma aveva più o meno la mia età.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 28/06/2001