MAURIZIO MAGGIANI Il Secolo XIX 29/07/2001 |
Via del Molo, quinto piano sottotetto, le quattro del pomeriggio di venerdì. Macaja, scimmia di luce e di follia: foschia, pesci, Africa, sonno, nausea e fantasia. Figuriamoci se, dall'abisso di aria stagnante e gocciante della prima macaja dell'anno, non sono d'accordo con il primo ministro Silvio Berlusconi: è solo per capriccio colpevole del bolscevismo risorgimentale che Genova è stata inopinatamente aggregata alla stessa nazione che ha per immeritata capitale la regale città di Arcore. Qui siamo duemila chilometri morali, estetici e climatici più giù, allo stesso parallelo di Giza, Cartagine, Casablanca. Non abbiamo ragione di lamentarcene; Giza ha avuto Cheope, Cartagine Annibale, Casablanca Humphrey Bogart, e con tutto il rispetto che è dovuto alla corona, Arcore, al momento, ha avuto soltanto Berlusconi. I genovesi non devono sentirsi offesi ed umiliati dai giudizi del loro primo ministro sulla loro città. Con un candore che va rispettato lo si rispetta nei bambini, non c'è ragione di non farlo con gli adulti egli si lascia andare anche nei consessi più alti alla libera espressione dei suoi semplici giudizi e dei suoi gusti casalinghi. Se nella dura concretezza del business egli ha dimostrato di essere rotto a tutte le scaltrezze del caso, negli aerei cieli della politica mondiale egli è un innocente, un giocondo, un semplice. Genova non gli piace non perché sia una fogna, ma semplicemente perché non è adatta come casa sua, luogo a lui sicuramente più familiare, all'ospitalità delle otto teste coronate del mondo. E lo ha riferito al parlamento come sentiva suo dovere di fare. Non fosse stato parlamentare lo avrebbe subito riferito a sua moglie e ai suoi amici del cuore. Fosse stato davvero re, e solo per distrazione elettorale dei sudditi così non è, lo avrebbe riferito al consiglio della corona.
Genova del resto è solo un piccolo passaggio del candido discorso del primo ministro all'alto consesso del Senato della Repubblica. Egli ha voluto confermare che il più grande risultato del G8 genovese sta nel miracolo per cui finalmente americani, russi e giapponesi hanno potuto parlarsi e sorridersi dopo tante guerre. Primo capoverso del discorso, così come è disponibile agli atti parlamentari.
Immagino la sua meraviglia e ne gioisco per lui. Nella sua semplicità non ha mai potuto credere che 6 (sei) presidenti americani hanno intrattenuto fitti e cordialissimi colloqui con il Gotha del bolscevismo sovietico mese dopo mese per cinquant'anni. E più avevano da contendere, più i loro colloqui erano frequenti e fruttuosi, visto che non 'atomica ha funestato la lunga guerra fredda, ma l'Urss ha goduto per tutto quel tempo della clausola di nazione favorita negli scambi commerciali degli Usa.
Né nella sua virginale innocenza egli ha mai potuto credere che la Costituzione grazie alla quale c'era un primo ministro giapponese a sorridere nella africana città di Genova, è stata scritta dal Generale Mac Arthur durante il suo scarso, tempo libero. E da lì in poi giapponesi e americani si sono sorrisi tutti i giorni che Iddio ha mandato in terra. Avessero smesso di farlo anche per un solo attimo le economie dei due paesi sarebbero crollate all'unisono come un mazzo di carte fasullo.
Alla fine del suo discorso (ultimo capoverso) il candido si è chiesto se davvero ne valeva la pena di questo G8 nella scomoda Genova. Si è detto sì perché i giovani di tutto il mondo potranno trarne grandi speranze per un futuro di pace e di benessere. L'immacolato ha distolto lo sguardo con orrore da Punta Vagno, dalla Diaz, da Bolzaneto, dove le pacifiche aspettative dei giovani del mondo venivano più che duramente frustrate dalla violenza eversiva e da quella istituzionale. E non erano aspettative precisamente indirizzate dove volgevano lo sguardo le teste coronate.
Nel mezzo del discorso è stato ricco di nuove e accorate intenzioni di equità e di universale fratellanza. Non vale la pena di giudicare le intenzioni, è più onesto attendere le prove fattuali. Che non devono tardare, vista la gravità dello stato delle cose. Allora vedremo come è andato davvero il G8 che si è tenuto in questa città, dove del G8 tutto è finito, tranne che le sue ferite, ferite a sangue.
Ma non possiamo sentirci delusi dal nostro candido primo ministro. Egli è fatto appunto così, che parla alla nazione e al mondo con lo stesso cuore con cui parla agli spettatori delle sue reti televisive, ai clienti delle sue imprese, ai fornitori delle sue domestiche esigenze. Se mai, dovrebbe turbarci maggiormente il discorso del suo massimo oppositore, il deputato D'Alema, che non è candido, non è vergine e nemmeno un semplice, per sua stessa autodefinizione.
Egli ha riferito di una deriva cilena a commento e giudizio di quelli che oggi sono i fatti di Genova. Conosco questi fatti e la loro gravità. Io c'ero nel corteo dei pacifici, li ho presi i lacrimogeni dei poliziotti e le spranghe dei black bloc. Avrei potuto essere alla Diaz se solo avessi avuto la forza fisica di andarci. Ma non ho mai pensato di essere altri 4000 chilometri più in giù di Giza e Casablanca, a Santiago del Cile. Se così fosse stato, se lo avessi pensato, non sarei tornato a casa. Avrei preso la strada dei monti e della clandestinità, come è giusto e legittimo attendersi da un democratico alle avvisaglie di un colpo di stato fascista. E mi chiedo come mai il deputato D'Alema, così in vista, così esposto nella sua posizione di leader, abbia corso il rischio di recarsi in Parlamento. Ho dubbi e sospetti su quello che è accaduto e potrà accadere. Ma la natura del pericolo non è cilena, è tutta di specificità italiana.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX - 29/07/2001