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MAURIZIO MAGGIANI

La narrazione come scelta di vita



Lei che è uno scrittore autentico, come giudica le scuole di scrittura, oggi così di moda? Pensa che possano servire?

Soprattutto a chi le tiene...

Può essere insegnata l'arte dello scrivere?

Con tutta franchezza non lo so dire. Prima di tutto perché io sono un autodidatta. Quello che so scrivere, se so scrivere, l'ho imparato negli anni, con le mie curiosità, con le memorie, non ho mai fatto studi regolari. So però di avere un mestiere: io scrivo storie, questo è il mio mestiere e chiunque può imparare un mestiere. So anche di avere un'arte, ho la mia "arte", né più né meno di un falegname. Ma ognuno di noi, io, lei, milioni di altre persone, tutti, abbiamo i nostri racconti interiori; racconti che abbiamo dentro, nella memoria, ma che ci sembra di avere anche "sulla punta della lingua". Pochi però riescono a raccontarli con le parole, con la voce, e pochissimi con le parole scritte. Del resto io, lei, altri milioni di persone, abbiamo il nostro tavolo interiore: sappiamo come lo vogliamo, ci abbiamo pensato e lo abbiamo lì davanti agli occhi; però né io, né lei, né altri milioni di persone riusciremo mai a farlo, dobbiamo chiedere aiuto a un falegname. E lui, nonostante le nostre indicazioni, anche se molto precise, farà il suo tavolo, non il nostro. Diventerà nostro dopo cinque, dieci anni, quando sarà ormai tutto segnato. Così il narratore, il fornaio, la ricamatrice, il pittore o il fotografo hanno un mestiere e hanno anche un'arte. L'arte sicuramente è di difficile apprendimento. Per le scuole di scrittura vale lo stesso giudizio delle scuole d'amore: l'amore è infatti un mestiere. Io amo la mia compagna e so che questo è il mestiere della mia vita, quello più faticoso, ma so che amarla è anche un'arte e quella non me la insegna nessuno, né lei, né mia suocera, né il mio confessore.

Lei ha partecipato ad alcune trasmissioni televisive e ha raccontato delle storie, crede che queste sue apparizioni siano state fruttuose, abbiano dato più notorietà ai suoi libri, siano state utili ai suoi lettori?

Ho scoperto una cosa: queste partecipazioni nuocciono sicuramente alla mia considerazione presso l'establishement, la Gilda, il potere letterario italiano. Se servono a chi legge non lo so. Io ho questa abitudine: vado a vendere il mio libro porta a porta, vado a quelle che si chiamano le "presentazioni". Per Il coraggio del pettirosso ne ho fatte 157, per quest'ultimo romanzo, uscito da due mesi [La regina disadorna, edizioni Feltrinelli n.d.r.], ho partecipato già a 24 incontri, perché voglio vedere in faccia chi leggerà o chi ha già letto i miei romanzi. Ho incontrato molte persone, vengo fermato per la strada da chi mi ha visto alla televisione e così nasce un rapporto diretto. L'unica cosa che ho da dare ai miei simili, ai miei confratelli, ai miei congeneri, sono proprio le storie che racconto e ho bisogno di un rapporto, anche fisico col mio pubblico. Vorrei essere pagato per poterle semplicemente raccontare a parole e non per iscritto. C'è inoltre chi mi fa le congratulazioni per quello che mi ha sentito dire in qualche trasmissione televisiva, ma dichiara di non aver mai letto un mio libro.

Lei ha pubblicato quasi tutti i suoi libri con un unico editore. È importante il rapporto tra scrittore ed editore?

Molto importante, non so se questo valga per tutti gli autori e per tutti gli editori. La Regina disadorna è opera mia, ma non sarebbe quello che è, nel bene o nel male, se io non avessi avuto l'aiuto di un gruppo di persone nella mia casa editrice, persone con cui ho discusso, a cui ho fatto domande, con cui ho scambiato opinioni. Sono davvero convinto che uno che abbia voglia di raccontare una storia e sappia anche farlo, debba mantenere la curiosità delle idee e delle opinioni degli altri. Il rapporto davvero particolare che ho con alcune persone della casa editrice so che mi è stato di grande aiuto.

L'isola del Pacifico in cui è ambientata la seconda parte del suo ultimo romanzo, è un'isola immaginata, però lei riporta dati, notizie, fonti storiche. C'è stata una ricerca o è tutta una costruzione fantastica?

Ho lavorato due anni per preparare il materiale per questo romanzo. Ho chiesto a quattro, cinque persone (che vengono anche citate in fondo al mio libro) di fare i revisori di alcuni aspetti specifici, perché mi riservo la libertà di inventare quello che voglio, ma non di inventare quello che non so che mi sto inventando. Non mi concedo la libertà di fare errori. Per quanto riguarda quell'isola, è insieme invenzione e realtà. Lo stesso vale ne Il coraggio del pettirosso per Alessandria d'Egitto, anche se tutti quelli che ci hanno vissuto credono di ritrovarla nelle mie pagine. Questo avviene perché chi ha troppa familiarità con un luogo poi non riesce più a distinguere bene quello che vede. Cerco di costruire uno spazio perché mi voglio assumere la responsabilità di preparare un teatro. Dentro questo teatro allestisco una grande scenografia e se questa pende perché qualcosa è fuori posto, qualcosa è appuntato male, tutto rischia di crollare e di mandare in fumo lo spettacolo che io ho così faticosamente preparato. Il mio teatrino lo voglio costruire interamente: Moku Iti, quell'isola, non esiste, ma le posso assicurare che ho studiato tutto quello che esiste in lingua italiana, francese e inglese riguardo al Pacifico, all'antropologia, alla geografia, all'orografia di quei posti.

I suoi personaggi hanno una profonda purezza, anche quando tradiscono, come se fossero detentori di una verità che poi è destinata a crollare. Tutto ciò rappresenta in un certo senso la vicenda storica della classe operaia italiana?

Io credo di sì, che sia proprio così. Questa cosa per me è di importanza vitale. Sono certo che una parte dell'umanità ha vissuto e tuttora vive in innocenza al cospetto dell'universo e al cospetto del suo Dio, se ce l'ha. È una buona parte dell'umanità, in particolare quella "trasparente alla storia", che non è compresa nella manualistica, così come nessuno dei miei personaggi compare in un manuale di storia contemporanea. La loro innocenza sta nel fatto di essere dentro la Storia, e di farla "con le mani". È gente che non parla quasi mai perché ha troppe cose da fare prima di arrivare a notte e finalmente "salvarsi", è dentro la storia, ma è anche fuori da essa, ne è tenuta fuori. Si può usare un'espressione forse troppo abusata: sta nel mondo, ma non è tutta del mondo. Ha qualcosa in più rispetto a quello che la sua epoca chiede. Se ho un ruolo fecondo nel mondo in cui vivo è perché sono un pochino più grande di quello che l'epoca in cui vivo pretende da me. La mia anima è un pochino più vasta di quella che mi si chiede di avere. Sono nella Storia, ma un pochino più grande di lei. La Storia non finisce mai, ma nemmeno la mia è conclusa. Il mio destino ancora non è stato scritto da nessuno, soprattutto il gran finale. Ho ancora, se voglio, la possibilità di tracciare una direzione per la mia vita, dentro al destino, anche se il destino è più grande, anche se la storia è immensa, soverchiante, come avviene ai personaggi del mio romanzo: vivono la guerra, la seconda guerra mondiale, eppure in questa immensa Storia, nell'infamia della Storia, questa povera gente è qualcosa di più...

Ci sono però momenti della storia che impongono delle azioni. I suoi personaggi non potrebbero non essere antifascisti.

Sì certo. È logico, è per la stessa ragione per cui non potrebbero non parlare la lingua che parlano.

La libertà è così necessaria alla loro vita che si mettono in gioco personalmente.

Certo che entrano in gioco. Io ho un chiodo fisso: raccontare la vita di persone che sono abbastanza grandi da fare qualcosa di più che sopravvivere, senza che questo venga chiesto loro da nessuno se non dalla loro stessa assunzione di responsabilità. È gente che si assume la responsabilità di vivere. Questo significa che compromettono, toccano, sfiorano, manipolano anche la vita degli altri. Quando una vita è vissuta in modo "regale", influisce poi sulla vita degli altri. Non sono un adoratore dei bei tempi andati però voglio che il passato mi appartenga e voglio appartenere anche al passato perché è l'unico modo che ho per vivere quest'epoca con dignità e con responsabilità, sapendo che, così come vengo da qualche punto indietro, ho ancora dello spazio davanti, ho un orizzonte oltre quello che vedo.

Il tema dell'amore è portante nel suo libro, senza che il sesso sia molto esplicitato. L'amore si esprime piuttosto attraverso gesti quotidiani e comuni...

L'ho notato anch'io: nelle mie storie c'è poco sesso rispetto alla media nazionale. Credo che se uno non ha niente di particolarmente nuovo da dire sull'argomento, può anche non parlarne. Quello che secondo me è ancora bello dire dell'amore sono appunto i gesti dell'amore, i gesti di una vita in amore. I personaggi di questo romanzo non parlano molto, non perché soffrono l'angoscia del mutismo esistenziale, ma perché parlano in altro modo, con le mani ad esempio, con la loro vita. Per inciso un grande amore non ha bisogno di grandi parole. L'esperienza ci insegna che quando un amore è invaso da molte parole è perché queste servono a celarne il decadimento. Le tante parole servono a trovare scuse, a raccontare bugie, a cercare di sostenere qualcosa che sta crollando. Se un amore è vivo non si serve di parole, ma di gesti. I personaggi del mio romanzo sono proletari dell'inizio di questo secolo, e poi degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta: le posso assicurare, ho visto grandi gesti d'amore da persone di questo tipo.

Intervista di Grazia Casagrande

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