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Noi, viaggiatori notturni in tempo di guerra |
Inizia a parlare confessando, tra il serio e il faceto, che lui non è tra i suoi scrittori preferiti. Ma ammette anche che questa è stata la prima volta che ha voluto rileggere un suo romanzo. Una storia che cercava da tempo, che aspettava quasi come un dono. L'ultimo libro di Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno (edizioni Feltrinelli, pp. 200, euro 15,00), sottintende una preghiera, quasi una supplica: è possibile vivere una vita degna di questo nome in un tempo di guerra? Il viaggiatore notturno è questo: un romanzo sulla vita e sulla guerra, ma anche sulla bellezza e sulla donna. La lingua di Maggiani è bruciante e poetica: ma non un dialetto, non un ripiegamento nella culla della sua identità culturale. Capace di violare la sintassi ordinaria della fantasia e del sogno per scrutare il nostro tempo, con spirito di scissione e una buona dose di realismo. E forse anche per questo, le parole, per lui, sono coraggio e resistenza insieme, ma conservano sempre un limite: quando smettono di essere carne e sangue, muoiono. Senza speranza di resurrezione.
Maggiani, vorrei partire da qui: dalle parole, che per uno scrittore assumono una valenza particolare. Tu hai denunciato spesso l'uso arbitrario che se ne fa. A cosa ti riferisci?
Io adesso non vorrei fare il marxista-leninista, ma dico che le parole sono merce di scambio al pari delle immagini, dei profilati di alluminio, della biancheria intima per signora E alle parole succede quello che succede a molte altre merci in circolazione. Faccio un esempio, per capirci: io ho un cugino che ha 34 anni, è un tornitore congegnatore meccanico, vale a dire merce rarissima, con una professionalità da pagare oro. Lui, un operaio ad alta specializzazione, non riesce a trovare lavoro in Italia perché nessuno gli chiede di applicare la sua professionalità. E quando va in una fabbrica si sente dire: "io non voglio che tu lavori bene, ma che lavori al minor costo possibile". Le aziende non vogliono una buona pompa idraulica, ma hanno bisogno di una buon'immagine di pompa idraulica. Anche le parole hanno subìto lo stesso processo. Quello che importa è l'immagine che la parola può assumere, ed è del tutto irrilevante la sostanza della parola stessa. Se noi oggi diciamo "guerra", il riferimento è all'immagine della guerra, che si è preventivamente provveduto a costruire. Quando si dice che il Governo Berlusconi "non fa un cazzo" ci sbagliamo. In Italia c'è stata una grande rivoluzione culturale di esito irrimediabile, tutta basata sull'esproprio della parola, del senso e della materia della parola. Oggi anneghiamo nell'impossibilità comunicativa, possiamo parlare tra noi solo facendo riferimento a immagini.
Chi sono i viaggiatori notturni?
Viaggiatori che viaggiano in tempo di guerra. In guerra si viaggia di notte perché è più sicuro. Mio padre è partito da Roma il 10 settembre del 1943 per tornare a casa; arrivato a piedi a Firenze è stato arruolato a forza nella Repubblica sociale, ha disertato e tutto il suo viaggio, durato un anno e mezzo, lo ha fatto di notte. Si è fermato sui monti, ha fatto il partigiano. Ecco, i viaggiatori notturni sono quelli che tornano a casa in tempo di guerra.
Il tuo è anche un romanzo sulla bellezza e sulla donna. Perché?
Io ho un impegno etico-morale al quale non so rinunciare, ed è quello di vivere ogni epoca della mia storia. Vivere, non sopravvivere, anche in quest'epoca che io trovo odiosa, irreparabilmente depravata dalla guerra. Si può fare qualcosa di più, di meglio, qualcosa che giustifichi la grandezza e la dignità della vita? Credo di sì, ma solo se scopri bellezza, se sai dove cercarla e come portare quella che hai dentro. Questo racconto è la storia di viaggiatori che cercano bellezza e alla fine la trovano in quei luoghi che loro pensano siano il "cuore dell'universo", il centro della terra. E chi sa meglio di ogni altro conservare bellezza, cercarla, raccoglierla, tenersela, proteggerla, se non una donna?
Prima hai accennato al terrorismo islamico. Nel 1954 Albert Camus scriveva che: il bacillo della peste non muore e non scompare mai...
Io sono nato nel 1951. Quando sono andato a scuola, a sei anni, mi hanno fatto una cosa che adesso non si fa più: i raggi ai polmoni. Mi hanno scoperto una forma primaria e silente di tubercolosi, a quei tempi una malattia endemica. Il medico mi disse che ero stato "toccato" da questa malattia, senza mai averne i sintomi, e che quando mi sarebbe uscita una piccola cicatrice sui polmoni, quello sarebbe stato il segno della completa guarigione. Bene. Oggi la scienza medica non parla più di guarigione, ma di "sospensione". Perché quel germe è rimasto lì, si è murato vivo nel polmone e la prima volta che le difese immunitarie mi si abbasseranno a tal punto da poterlo destare, verrà fuori e farà il suo lavoro di sterminio. Ecco, noi il terrorismo lo abbiamo incubato e murato vivo nella nostra cultura, nella nostra civiltà, nella nostra società. E ogni volta che le difese immunitarie della nostra società si abbassano abbastanza, spunta fuori e non ne guariremo mai.
Molti parlano addirittura di "scontro di civiltà". Cosa rispondi a costoro?
Io non rispondo a costoro perché semplicemente non penso che si debba dialogare con loro. Voglio dialogare con chi ha orecchie per ascoltare. Io combatto anche contro me stesso per cercare di tenere sempre aperte, sturate e libere le mie orecchie. Vedi, da anni leggo molto attentamente la Bibbia. E leggendola scopro che l'idea del genocidio era un'idea intrinseca, o ritenuta tale, alla cultura che poi il genocidio l'ha subito. E l'ha subito nella storia in modo irrimediabilmente tragico. Quindi io preferisco amare la mia cultura, preferisco condividerla e accettarla anche nelle sue parti più nefande e, invece che parlare di civiltà, parlare di storia. Io appartengo a una cultura che ha una lunga storia, nella quale ha maturato bellezza e orrore. Che sia superiore la cultura a cui appartengo rispetto ad altre lo può determinare un principio che io non accetto: e cioè che la storia la fa chi vince. Oggi io appartengo ad una cultura che apparentemente ha vinto e quindi si permette di giudicare, ma non è il metro con cui io misuro la mia storia. Anche perché io so che la storia non finisce mai, cosa che altri pare ignorino.
Uno scrittore armeno ha scritto di recente che la memoria non è ciò che abbiamo vissuto ma quanto abbiamo ereditato. E' l'eco di un passato. Secondo te, di questo tempo di guerra, conserveremo più memoria o più oblio?
Di sicuro consegneremo alla generazione futura una gran porcata. Però, ci sono generazioni che hanno ereditato qualcosa di peggio di quello che stiamo vivendo e hanno saputo trasformare quell'eredità in un oggetto proponibile, in un'offerta, in un dono che non fosse ridicolmente obbrobrioso. La memoria è uno strumento, è creatività; non è cronaca ma costruzione di un orizzonte circolare. Abbiamo bisogno di voltare lo sguardo senza trovare un baratro, ma una continuità di quell'orizzonte.
Sì, ma viaggiando di notte spesso diventa difficile scorgere quell'orizzonte. C'è il buio. Ti spaventa il buio di questa civiltà?
Io non ho paura del buio, e sai perché? Perché ci sono uomini che sono capaci di fare luce. Questo mio ultimo libro è dedicato a un uomo che era capace di fare questo. Si chiama Tom Benetollo. Lui è stato il mio migliore amico. Lui era un lampione al quale io mi sono appoggiato tante volte per vedere qualcosa. E come Tom ce ne sono tanti, uomini e donne, che ogni giorno costruiscono luci per renderci in qualche modo il cammino, non dico agevole, ma comunque non mortale. Non mortale.
Intervista di Giuseppe Rolli LIBERAZIONE - 24/03/2005
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