La Cantata di Tabucchi al fermoposta della vita



C'è un'altra sottile ragione dell'attesa di un nuovo libro di Antonio Tabucchi, oltre quella di calarsi ancora una volta nella sua raffinata e sempre più virtuosa scrittura. E' la questione del “genere” e della costruzione del racconto. Son sempre soluzioni che hanno del magico. Del resto il “Sostiene Pereira”, un racconto tutto sostenuto da quella semplice frase, non è un'invenzione da poco. Qui, in questo “Si sta facendo sempre più tardi” la questione – che è poi uno dei modi di approssimarsi al cuore della narrativa tabucchiana, sia pure con l'incertezza della primissima lettura – è: son racconti brevi in forma di lettera o romanzo?

L'autore insiste sul romanzo. Già nel sottotitolo “Romanzo in forma di lettere”; ma, a ben scrutare, in tutto il libro, o nel paratesto, come dicono quelli che la san lunga, si ritrova la perentoria etichetta: nel “Post Scriptum”, un racconto esso pure, e perfino nel brevissimo corsivo di ringraziamenti. Eppure, si giurerebbe al primo approccio, son lettere ben diverse. Con ben diverse destinatarie. Da un generico “mia Cara” (però maiuscolo, e quindi c'è un “Cara, mia carissima Cara”, la lettera si personifica nel suo vocativo più tipico) fino a “Mia carissima Emoglobina”, che è proprio il sangue, passando per “Madame, mia Cara amica” e per “Era rapiti i sensi, o mia donna gentile”, intessuto di musica e di trama della “Norma”, intrecciati magari a “Tintarella di luna”, con la maestria tipica di Tabucchi del pastiche oggettuale (oggettuale non linguistico) e del collezionismo Kitsch, il tanto amato e consolatorio Kitsch (“E il tuo sorriso, il concerto di quella sera, con la luna che sorgeva dietro il ciliegio, risuona nell'aria, si dirige verso le colline basse...”). Fino all'ultima “Gentil Signori, nonostante questa sia una lettera circolare, la nostra Agenzia...” che si rivelerà, ma s'intuisce presto, scritta dalla Morte.

Le lettere però si presentano con tanto di titoli e persino di epigrafi, cosa strana e spiazzante. Per esempio la prima è intitolata “Un biglietto in mezzo al mare”, breve storia di un soggiorno in un'isola greca, variante del messaggio in bottiglia. Dunque un prologo, dunque un incipit bello e buono. Al di là dell'apparente variazione del destinatario, temi, ritornelli (“Come vanno le cose. E cosa le guida: un niente. E' una frase che ho letto...”) e perfino frasi e movenze si ripetono circolarmente.

Non sono le trame – a riassumerle ci vorrebbe un acrobata dell'impossibile – a contare. Contano i motivi ricorrenti sussurrati o intonati sull'onda di una musica stilistica, accompagnata e contrappuntata da parole e musiche citate (“Norma”, “Nabucco”, “Voce 'e notte”, i Beatles con “Yesterday, all my troubles seemed so far away” chiamata a far da colonna sonora all'Amleto scespiriano, e tante altre). E i motivi sono i suoi tipici, solo spinti un po' più in là, fino all'estremo, all'orlo.

Uno è il tema del rimorso (“un mea culpa macchiato caldo, prego”) che circola in tutto Tabucchi e fa capo a un rovello essenziale e preciso, mai confessato, ma poi s'allarga e abbraccia a pieno la vita: il rimorso di non averla esperita fino in fondo, solo sfiorata, reso più acuto dall'imminemza dell'abisso, il “nulla del nulla”. Per cui, ecco, tutte le lettere o pseudolettere acquistano un senso unitario: si tratta sempre di un addio. Con tanto di rituali volutamente stereotipi: “Ho cercato di sventolare l'asciugamano per dirti ciao, ma tu eri già troppo lontana. Magari non te ne sei neppure accorta”).

Son tutti addii, alla vita dopotutto, s'intende. Incluso il suicidio, intorno a cui ruotano alcune pagine. Con una precisazione che reintegra subito il tema dentro il discorso letterario: “Un mio amico sostiene che il suicidio, per il fatto di essere una scelta radicale, paradossalmente in fondo è più facile: un gesto e via. Ben più difficile è il silenzio”. E tutti i raccontini o lo strano e straordinario “romanzo epistolare” appare come una risposta all'angoscia del silenzio, una cantata continua, una disperata opposizione di parole e vocativi all'horror silentii che minaccia mortalmente la vita, vita e letteratura.

Nell'intrico delle vicende appena accennate, dalle congiunzioni memoriali, delle digressioni frequenti, delle citazioni più disparate e sovrabbondanti, il lettore attento coglie questi passi espliciti e disseminati come una guida al testo: “Parlare, e soprattutto scrivere, è sempre stato un modo di venire a patti con la mancanza di senso della vita”. Quel senso della vita che vien meno nei piccoli come nei grandi fatti (non quelli strettamente politici, dai quali questa volta Tabucchi si astiene, per rimanere fedele alla sua propria Musa sfruttandola fino in fondo), e rende non più raccontabile in ordine ma solo immaginabile la vita. Di qui la necessità di una nuova forma narrativa, inedita, che corrisponda alla Weltanschauung metereologica di Tabucchi, secondo cui, sempre, un battito di ali di farfalla a New York scatena un tifone a Pechino, e nel caos di mezzo ci siamo noi.

Dunque in questa “Vita nuova”, nel senso di vita rinnovata a rovescio, andando all'indietro nel tempo o al condizionale (“cosa sarebbe successo se...”), l'altro punto chiave è il rapporto, come in ogni ricerca vitanovistica, tra ricordo e immagine.Tutto “Libri mai scritti, viaggi mai fatti” è la descrizione di un viaggio (e dove se non a Samarcanda?): “Amore mio, ti ricordi quando non siamo andati a Samarcanda?” Ed è di una precisione esatta e quasi ossessiva (L'Orient-Express, la Gare de Lyon, etc.). Il brano non è al tempo futuro ma al passato. Dunque si tratta della memoria dell'immaginazione di un viaggio, l'autore attinge nel “libro della memoria” punto per punto un viaggio costruito a suo tempo nell'immaginario (“Ma questa volta non te lo riassumerò come feci quella notte, te lo trascriverò come se stessi copiando, perchè naturalmente esiste parola per parola nella mia memoria che lo ha immaginato”).

La letteratura e persino la sottilmente architettata forma romanzo si giustificano nel rimando continuo a un passato – scritto o orale – che è già letteratura. Si parla poi, certo, sempre di amore anche se nel senso più aperto alle categorie del “rancore, del risentimento, della nostalgia e del rimpianto”, ma anche della vendetta a distanza di molti anni - tramite una lettera che inizia con una citazione della lettera dell'ex amata – da parte di un uomo, in “Buono come sei”, uno dei “racconti” più netti. Non solo l'amore, ogni cosa che viene toccata si riverbera come fosse una citazione. Per i motivi “amorosi” di Tabucchi vale forse il famoso detto di Roland Barthes per cui tutte le volte che un'amante pronuncia la parola “ti amo” cita tutti i precedenti amanti che l'hanno profferita. Solo che in Tabucchi ciò avviene all'interno dei vari “io” che si presentano, tra passato e presente, sulla scena. La mise en abyme, direbbe qualcuno, il gioco di specchi che si rinvia all'infinito, è la formula e il rito salvifico necessario di ognuno dei passaggi di questo “romanzo”, scritto, ricordiamolo, dall'ammiratore e traduttore in racconto del Velasquez di “Las meninas”.

Giorgio Bertone – ILSECOLO XIX – 22/03/2001