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TEATRO

MONI OVADIA

Le Interviste

Moni Ovadia, cantore e saltimbanco, che ha fatto della mamelushn, la lingua mamma, ossia lo yiddish, il suono e il segno della memoria. Moni Ovadià, ovvero colui che ha portato tra i goym, i gentili, la cultura yiddish, la vita dello shtetl, la musica klezmer. E I non ebrei hanno risposto con entusiasmo, decretando il successo di tutti i suoi spetttacoli da "Oylem Goylem", a "Ballata di fine Millennio", fino al più complesso e controverso "Dybbuk", sulla Shoà.

Che cosa significa Oylem Goylem?
«Oylem significa mondo, mentre goylem nel folkore ebraico indica una creatura inanimata fatta di terra, ma significa anche scemo, goffo, da prendere in giro».

Dunque il mondo scemo…
«La storiella, il witz ebraico, ride di sé, ride dei propri difetti, sbeffeggia quel mondo che si pretende ordinato e che invece è scemo»

Ovadià significa "Servo di Dio", qual è il suo rapporto con Dio?
«Nei prossimi mesi porterò in scena uno spettacolo nuovo reciterò un testo integrale che si chiama Yossl Rakòver. Un vero testamento di un partigiano del Ghetto di Varsavia che, sapendo di morire, si rivolge a Dio con queste parole ‘il mio rapporto con te non è più quello di un servo con il padrone… io ti amo, ma più di te amo la torah’. Levinas dice se noi vogliamo trovare Dio, dobbiamo passare dalla stazione dell’ateismo. Il vero problema non è Dio è che l’uomo creda nell’uomo. Dio è dove lo lasci entrare, è accoglienza, è un percorso, un progetto etico»

E il rapporto tra religione e ebraismo?
«L’ebraismo non è identificabile con la religione, che è un cascame, il culto è un concessione che Dio fa agli uomini, alla loro debolezza, alla loro fragiIità, anche perché costruire un cammino etico senza regole è difficile. Il vero fulcro dell’ebraismo è invece la santità della vita. Non c’è mitzwot, ossia non c’è precetto, e nell’ebraismo sono oltre seicento, che tenga di fronte ad una vita in pericolo. Se una vita è in pericolo il precetto puo’ essere trasgredito. Solo due precetti non possono esser trasgrediti: non uccidere e l’incesto. L’uomo libero, questo postula la torah, e questa è la più grande e sconvolgente scoperta dell’ebraismo, e dalla libertà non puo’ essere disgiunta la responsabilità».

Hans Jonas in un suo famoso scritto afferma che dopo Auschwitz il concetto di Dio va ripensato, che non puo’ più essere lo stesso che bisogna rinunciare a una delle sue tre qualità?
«Bisogna rifuggire la teoparanoia, il pensiero sclerotizzante. A quale qualità di Dio bisogna rinunciare? La Shoà è come un grande diluvio e noi dobbiamo rifondere un patto nuovo sia con il divino che con l’umano, in modo tale da bandire ogni intolleranza e rientrare così nel flusso della mansuetudine, della pazienza e della bontà. L’intelligenza cinetica, il pensiero critico e il ridere di sè ci aiutano a evitare la sclerosi mentale e aprono il cammino alla tolleranza, ed evitano il nascere dell’integralismo religioso. Gli integralisti pensano di essere i depositari della volontà assoluta del Padreterno, però al tempo stesso lo considerano un minus habens incapace di difendersi da solo, si affannano come delle madri isteriche, per proteggerlo dalle cattiverie degli uomini».

Si potrà mai ricomporre quella frattura tra il mondo e la storia rappresentata dalla Shoah?
«Non ci puo’ essere perdono, non ci puo’ essere ricomposizione senza giustizia, non vendetta, ma giustizia. E giustizia non è stata fatta. Come si puo’ chiedere alla gente, ai sopravvissuti di perdonare conto terzi? I nazisti vadano ad Auschwitz si mettano in ginocchio e chiedano perdono a Dio. Quando li hanno presi i nazisti non sono andati davanti ai plotoni di esecuzione, hanno piagnucolato sono scappati come topi protetti dalle dittature sudamericane. Come si fa a perdonare seppur vecchio uno come Priebke, uno che di fronte allo scempio commesso afferma che eseguiva degli ordini. Ha ragione Magris quando dice che questa era gentaglia, buffoni, e che il grande reich millenario è durato meno della sua giacca a vento».

Michele Mancino

INTERVISTA A MONI OVADIA

Intervistatore: Adesso stai girando l'Italia con una serie di tuoi spettacoli, da "Oylem Goylem" a "Cabaret Yiddish", da "Ballata di fine millennio" a "Il caso Kafka": come ti spieghi tanto interesse per l'ebraismo oggi ? E quanto hai dovuto snaturare le tue tematiche per renderle accessibili al grande pubblico?

Moni Ovadia: Credo che la cultura ebraica oggi venga recepita benissimo; forse sfuggono alcuni dettagli, ma l'emozione, gli umori, l'esilio, lo spaesamento, lo sradicamento, la precarietà che diventa forza, questo si capisce tutto, ed è il motivo di tanto interesse. Certo poi la moda è moda, e ci saranno sempre quelli che amano l'esotico perché devono avere un argomento da salotto: lo fanno con i pellerossa o con gli ebrei non cambia, ma chi se ne importa. Resta il fatto che questo secolo, tra Marx, Freud ed Einstein, ha avuto una forte centralità ebraica, e forse anche il mondo cattolico ha capito che gli ebrei rappresentano l'esperienza cristica più sconvolgente di tutta l'umanità: un intero popolo crocifisso.

Intervistatore: Dal teatro alla televisione: il tuo spettacolo in TV ha avuto un'audience di un milione di spettatori in prima serata; soddisfatto ?

Moni Ovadia: Sì, perché ho avuto gli stessi numeri fatti dal Machbet alla Scala con un battage pubblicitario 30 volte superiore al nostro; e poi un milione di persone vuol dire un potenziale di pubblico teatrale immenso.

Intervistatore: Raccontaci della tua fatica nel creare umorismo.

Moni Ovadia: Spesso mi sembra di attirare il dolore del mondo come un parafulmine: ho depressioni e smarrimenti che mi confermano come l'umorismo ebraico abbia poco a che spartire con lo stupidario televisivo del ridere continuamente e a tutti i costi. Quando il riso è ridondante diventa squallore, mentre il riso contro se stessi non ha nulla a che vedere col carnefice che deride le vittime, ma dona la vertigine di chi si misura alla pari con D-o.

Intervistatore: Quando si ride del sovrannaturale ?

Moni Ovadia: Quando l'urlo e la protesta contro la sordità divina non bastano.

Intervistatore: Si può ridere della Shoah ?

Moni Ovadia: Ti faccio un esempio classico: in un lager l'ebreo cerca di afferrare una buccia di patata. Il nazista gli blocca la mano col tacco della scarpa, dicendo: "Ho un occhio di vetro: se indovini qual'è puoi mangiare la buccia, altrimenti muori." "E' il sinistro" risponde l'ebreo. "Come hai fatto?" chiede incuriosito il nazista. "Ha un barlume di umanità" replica l'ebreo.

Intervistatore: Cosa distingue l'umorismo ebraico da quello del resto del mondo?

Moni Ovadia: La risata ebraica si contrappone alla follia del mondo e diventa un elemento salvifico: è l'anti-idolatria assoluta, la sintesi più radicale del pensiero ebraico. Il nazismo e la sua pagliaccesca banalità sono stati messi in piedi da una banda di miserabili: se c'è mai stato un "sotto-uomo", questo era il nazista; non c'era nulla di glorioso nel loro progetto del male: una banda di vigliacchi che uccidevano degli inermi; oppure Generali che dirottavano i treni con le derrate alimentari come rubagalline. E quando qualcuno veniva preso, cosa diceva questo popolo di eroi ? Una litanìa di "non sapevo", un piagnisteo di "eseguivo gli ordini". I più coraggiosi sono scappati come topi per andare a nascondersi tra i fascisti sudamericani. Ha ragione Magris quando dice che "...mentre le vittime sono i protagonisti della più grande tragedia dell'umanità, i carnefici sono personaggi da polpettone di quart'ordine e non possono condividere lo stesso palcoscenico..."

Intervistatore: Parliamo un po' dell'umorismo israeliano...

Moni Ovadia: La cosa più divertente è che prende spunto dalla situazione paradossale e deflagrante del vivere, ebrei con ebrei, tutti uno vicino all'altro. Ben Gurion rispose ad Eisenhower, che si lamentava di dover governare 180 milioni di abitanti: "Allora facciamo cambio, e tu vieni a governare i miei 3 milioni di Primi Ministri."

Torniamo alla modernità e alla tradizione: a New York ho visto un Hassid che parlava al cellulare e gli ho chiesto: non c'è contraddizione tra lei e il telefonino ? Lui ha sorriso e ha risposto: "La Torah non lo vieta." Anche la segreteria telefonica e il videoregistratore aiutano ad osservare lo Shabbath, e questa capacità di attraversare i tempi è una grande lezione per il futuro.

ABBIAMO INCONTRATO MONI OVADIA A MINERBIO IL 26 APRILE QUALCHE ORA PRIMA DI ANDARE IN SCENA.

È stato un incontro con il pubblico bolognese e del comune di Minerbio per parlare della cultura ebraica e non solo. Confrontarsi con un uomo di così grande cultura, vuol dire andare oltre i confini della semplice risposta alla domanda. Gli argomenti e le parole scorrono come un fiume.
Moni Ovadia è (lo diciamo con affetto) logorroico, una domanda è l'occasione per aprire mille rivoli, mille argomenti, di cui Ovadia parla con cognizione di causa, con sapiente cultura. In diversi momenti ha parlato della spiritualità ebraica, ha spiegato passi significativi delle antiche scritture, ha soprattutto posto l'accento sulla libertà dell'uomo.
L'uomo nasce libero, è libero, e questa libertà ha fondamento nelle stesse parole del Signore. L'uomo è Suo servo e di nessun altro, niente tiranni, tutti uguali.
Ascoltarlo è un piacere, vi riportiamo le sue risposte alle uniche due domande che siamo riusciti a fare per il ridotto limite di tempo.

Quale è la funzione dell'umorismo ebraico oggi giorno?
   L'umorismo ebraico autodelatorio, rivolto verso se stessi, contro se stessi, è una specie di sterminato patrimonio, come uno scrigno senza fondo, da cui escono perle di intelligenza. Mi rendo conto che ogni volta che mi avvicino a questo repertorio, che è un repertorio tradizionale elaborato da ognuno di noi a sua maniera, colgo nuove suggestioni.
Sembra offrire mille sfaccettature possibili per un cammino.
È come se fossero per me i capitoli di un lungo libro che potrei intitolare "L'ebreo che ride" (edito da Einaudi per la collana Stile Libero), non per rifarmi al libro, ma per rifarmi al cammino umoristico, un cammino millenario.
    Che funzione ha oggi? Dovrebbe avere una grande funzione, ma come tutte le spiritualità quella ebraica ha dei problemi grossi, ha dei problemi estremamente densi e molto gravosi per l'identità ebraica, perché c'è una sorta di delirio di sé.
Nel momento in cui non sei più disperso, esiste una terra, questa terra ti dà una copertura di sicurezza e addirittura in alcuni casi produce forme di teoparanoia o di delirio dell'anticipazione messianica. Secondo me questo è il vero problema ebraico nel futuro: l'idolatria di sé.
Allora l'umorismo potrebbe avere un'enorme funzione, ma sembra temporaneamente affaticato. L'umorismo è stimolato sempre in qualche misura dal rischio. C'è una sorta di ritorno in Egitto degli Ebrei.
Ma non è l'Egitto della schiavitù dura, è quello della schiavitù dorata, che è molto peggio.
Perché il primo ti fa rendere conto di chi sei, viene voglia di ribellione, di pensiero, l'Egitto della schiavitù dorata fa rimpiangere a quella parte di ebrei che uscirono con Mosé la terra da cui fuggivano.
Allora c'è qualcosa di estremamente inedito per gli ebrei ed è la costruzione di un Egitto non fuori nell'esilio, ma in quella che dovrebbe essere una casa.
Il problema della terra con gli ebrei, del loro rapporto è estremamente drammatico e verrà fuori nella sua pienezza quando sarà fatta la pace con gli arabi.
Credo sarà l'attesa di qualche lustro, non di più. Questa pace arriverà.
Allora si capirà che esiste ancora una funzione per l'ebraismo, che cos'è il problema degli ebrei, se il problema degli ebrei è la riattivazione di una presunta israele biblica che non esiste più, che non è esistita per duemila anni. È quello il problema? È altro?
Quale sarà il rapporto che gli ebrei stabiliranno nel futuro fra particolarismo e universalismo?
In questo momento l'umorismo ebraico sembra guardare al suo glorioso passato, così faccio io certo per sollecitare il futuro. E questo è il meccanismo della memoria ebraica. Noi per parlare del domani, guardiamo a ieri, nel senso che tutto il lavoro ebraico è percuotere quel testo millenario e attraverso un lavoro emeneutico di interpretazione, rivitalizzare i pozzi, le fonti, che le acque non siano stagnanti, ma siano sorgive.
L'umorismo dovrebbe percorrere questo cammino, non siamo noi la generazione. Conosco i limiti della mia generazione: sono intento a guardare dentro i limiti della mia generazione.
Credo che la nostra generazione, per attivare un meccanismo nuovo di umorismo autodelatorio sufficientemente feroce da scardinare tutta una serie di nuovi totem, debba uscire dall'Egitto, dal nuovo Egitto che è stato il Nazismo, il più duro. Siamo troppo influenzati da questo, è stato qualcosa che ha vibrato un colpo talmente impressionante al cammino ebraico, al rapporto col divino che richiede un tempo di elaborazione.
    I segni interessanti ci sono. Molti vecchi ebrei dell'est, che vivono in Israele, non amano l'umorismo israeliano, più rude di quello ebraico, però ci sono segni affascinanti.
Per esempio questa storiella, che non è umoristica, ma parecchio dura di un bambino che gira con suo nonno e questi gli indica un albero e dice "vedi questa quercia una volta non c'era, l'ho piantata io", poi cammina "vedi questa casa, una volta non c'era, l'ho costruita io", girano girano e il nonno con la fierezza di dire queste cose, finché il nipote perplesso gli chiede: "nonno, di', una volta eri arabo?". Allora questa storiella molto aspra pone il problema del ritorno ebraico e della situazione già trovata lì, la tragedia di due popoli non prevista.
    L'umorismo potrebbe giovare a scuotere un po' le acque stagnanti. Forse l'umorismo reciproco, i palestinesi sono persone molto più vicine agli ebrei di altri popoli arabi, perché hanno vissuto una diaspora, un esilio. Sono due popoli fatti per intendersi, anche qui ci vorrà ancora un po' di tempo.
Bisognerà rivisitare l'umorismo e rifertilizzare i campi, riattivare le acque morte attraverso il pensiero, perché l'umorismo ebraico è una struttura cognitiva, non è qualcosa per far ridere, ma per fare pensare.
È sempre per mettere qualcuno di fronte a se stesso. È un grande strumento di intelligenza e di pietas nei confronti dell'uomo, perché ne fa vedere i difetti. Credo che nel cammino umoristico, si debba attendere una generazione che ritrovi i cammini dell'incertezza, i cammini dell'alea, del rischio.

Non c'è il rischio che si conosca della cultura ebraica solo l'umorismo e non altri aspetti?
    Credo che l'umorismo abbia avuto successo nei non ebrei perché per questi è stata una scoperta. Gli ebrei erano pensati come personaggi scuri, brutti, difficile pensare che uno di questi rabbini con i riccioli e con un passo pensoso e strano, possa ballare in una platea dopo aver bevuto mezza bottiglia di wodka.
Non è vero che l'ebraismo è stato conosciuto solo attraverso l'umorismo, posso dirlo perché sono il principale responsabile, io con tutti i miei libri. I libri di Fölkel (2) no, perché Fölkel ha fatto una cosa molto semplice, ha preso dei repertori e poi li ha ordinati. La sua operazione ha avuto il pregio di essere la prima in Italia, io invece mi considero un allievo di Leo Rosten, anche se lui non mi ha conosciuto. Tutti i miei libri collegano l'umorismo alla spiritualità.
    Perché secondo me il cammino cognitivo ebraico è inaugurato fortemente dalla opzione umoristica. Oggi di libri sull'ebraismo in ambito cristiano, cattolico, se ne pubblicano a migliaia, di umorismo ne esistono 7-8. Se noi andiamo a vedere Giuntina
(www.giuntina.it), casa editrice che pubblica solo argomenti ebraici, di pubblicazioni umoristiche forse non ce n'è neanche una.
    Ha fatto molto rumore soprattutto nel mio lavoro, quello più conosciuto, "Oylem Goylem", che è stata una specie di sorpresa. Ma anche in questo c'è una preghiera sulla Shoà, e ci sono momenti di grande riflessione, di grande tensione espressiva.
Se andiamo a prendere tutto quanto è stato pubblicato, romanzi, salmi, vediamo come le pubblicazioni umoristiche non saranno più dello 0.2%.
Assolutamente super esiguo, ha fatto più impressione perché ha permesso di vedere per la prima volta gli ebrei in un modo diverso.
Si parla sempre di umorismo, ma facendo quattro conti vadiamo che se ne parla pochissimo, se prendo il catalogo della case editrici cattoliche Dehoniane e le Paoline, trovo centinaia e centinaia di libri sull'ebraismo, ma non trovo libri sull'umorismo.
Dei libri specifici sull'umorismo pubblicati in Italia conosco i miei, i due di Fölkel ("Storielle ebraiche", 1988, BUR; "Nuove storielle ebraiche", 1990, BUR), uno della Loewenthal ("Un'aringa in Paradiso - Enciclopedia della risata ebraica", Baldini & Castoldi;) e un libro di Leo Rosten, da poco tradotto per la Mondadori ("Oy oy oy! - Umorismo e sapienza nel mondo perduto dello yiddish").
Poi abbiamo Woody Allen, i fratelli Marx, che erano fortemente inseriti nell'umorismo ebraico, però non sono esplicitamente tali. Jerry Lewis, Mel Brooks non sono esplicitamente umorismo ebraico, mentre Chaplin è quello che fa la sintesi più folgorante dei tipi umoristici del ghetto, dello shtetl. Mostra l'universalità di quei tipi che sono quelli dell'omino pieno di disavventure, ma mai domo, dignitoso e sempre pronto a battersi per le buone cause.

Andrea Grilli  15 giugno 2000


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