Suad
Amiry, architetta palestinese scopertasi scrittrice dopo aver
pubblicato il fortunato diario da Ramallah assediata Sharon e
mia suocera, conclude Se questa è vita, il suo
secondo libro, uscito in Italia anchesso per Feltrinelli a
febbraio, con la citazione di questa frase di Ariel Sharon: Ne
faremo (dei palestinesi, ndr) un sandwich al pastrami,
infilandoci in mezzo una striscia di insediamenti ebraici e poi
unaltra ancora che attraversi da un capo allaltro la
Cisgiordania di modo che, tra venticinque anni, né le
Nazioni Unite, né gli Stati Uniti, né nessun altro,
riusciranno a farlo a pezzi. Era lanno 1973 e Sharon,
così lei appunta, esponeva il progetto a Winston Churchill
III, nipote del primo ministro britannico. Di anni, da quel 1973,
ne sono passati trentadue e, nelle ultime settimane, il
sandwich ha perso qualche pezzo. Ora Suad Amiry - un
passato cosmopolita, tra Amman ed Edimburgo, prima di mettere
radici a Ramallah, e membro tra il 1991 e il 1993 della
delegazione israelo-palestinese a Washington - commenta con noi
gli ultimi avvenimenti. Intorno ai cinquantanni, bel
viso, occhi verdi, stazza giunonico-atletica, Amiry è uno
dei cardini del crocevia mediorientale che si materializza in
questo fine settimana a Mantova: al festival transitano, in
contemporanea, laltro palestinese Mahmoud Darwish, il
libanese Elias Khuri, lisraeliano Avraham B. Yehoshua, le
irachene Buthain Al Nasiri e Inaam Kachaci. Se bastasse mettere
poeti e romanzieri intorno a un tavolo per risolvere le
cosiddette guerre di civiltà - con laggiunta
di un americano, prendiamo Art Spiegelman, un inglese, mettiamo
Nick Hornby- a Mantova sarebbe fatta. Nel concludere Se
questa è vita lei annotava che ripensando a
quella frase di Sharon e vedendo intanto crescere mentre stava
scrivendo, nel 2003, il muro israeliano che invadeva gli
insediamenti palestinesi, provava un violento mal di stomaco. Gli
avvenimenti della seconda metà di agosto gliel'hanno
lenito? Sono felice per ogni israeliano che si ritira dai
Territori, ma attenti a non perdere di vista il quadro nel suo
complesso: lo Stato palestinese, ora, ha Gaza, ma lidea di
Sharon è di tenere salda tutta la Cisgiordania e
Gerusalemme in particolare. E i coloni, cacciati dalla Striscia,
è qui che finiranno. Sharon è un uomo molto
intelligente e un ottimo politico, ma l'ha detto: per lui la West
Bank non è un territorio occupato. Suppongo che ci sia un
accordo con Bush che ha visto come merce di scambio gli
insediamenti a Gaza. Sharon era luomo per farlo, col suo
background militare e di destra, è il bulldozer adatto a
procedere rassicurando gli israeliani. Peres, del quale apprezzo
molte posizioni, non sarebbe stato la figura giusta. Io credo che
in realtà, personalmente, Sharon si sia voluto assicurare
che non appaia mai più allorizzonte un Rabin che
promette il ritiro dai Territori: gli accordi di Oslo, lui, li ha
vissuti come un incubo. È un grande spettacolo quello che
ha allestito con l'evacuazione: poteva procedere dimperio e
in fretta, invece abbiamo assistito a una scena madre. Se è
stato così drammatico procedere con settemila coloni,
quanto lo sarebbe con 250.000 persone a Gerusalemme e 400.000 o
più in Cisgiordania? Ecco linterrogativo che ci ha
suggerito. Per paradosso ai palestinesi è convenuto
che Israele abbia un governo di destra? No. Ma certo il
conflitto tra la destra e la sinistra si risolve a questo: la
destra ritiene che tutta la Palestina storica sia di Israele, noi
palestinesi oggi possediamo il 7% della Cisgiordania e per Sharon
possiamo starci, gestire le nostre scuole e la raccolta dei
rifiuti. I laburisti accettano lidentità politica
palestinese e il diritto allautodeterminazione, ma in uno
Stato che sia più piccolo possibile. Alla fine il
conflitto è su quanta terra possiamo avere. A Gaza è
stato assassinato Moussa Arafat. Si è scritto che ora la
Striscia rischia la libanizzazione. Lei è
daccordo? No, ciò che avviene è la
palestinizzazione di Gaza. Arafat aveva una struttura di
sicurezza composita e frammentata e, nei quattro anni di
prigionia, ne aveva perso il controllo. Abu Mazen ha cercato di
riunificarla, da qui le lotte intestine. Ogni volta che Stati
Uniti e Israele favoriscono il vuoto di potere in Palestina,
Hamas si rafforza. Il consenso a Hamas non viene da Dio, però.
La comunità internazionale dovrebbe aiutare Abu Mazen a
offrire quei servizi, scuole, ospedali, lavoro, che Hamas offre a
una popolazione dove il tasso di disoccupazione raggiunge il
70%. Nei suoi due libri lei racconta con ironia al calor
bianco la vita quotidiana dei palestinesi. Abbiamo contato però
una sola volta la parola kamikaze. Perché
questa omissione? Io non sono una kamikaze, né lo è
mio marito né mia suocera. Scrivo su tre milioni e mezzo
di palestinesi normali. Cè una figura nel suo
diario, il quindicenne Rami: collaborazionista, come suo padre fa
la spia per gli israeliani, vive in una famiglia
occidentalizzata, con una madre adultera, due fratelli
tossicodipendenti e uno morto per overdose. È il
contraltare dei fondamentalisti suicidi? Ci sono giovani,
da noi, che hanno conosciuto solo loccupazione, che dura
ormai da 38 anni. Il discrimine non è tra ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato. I giovani sono solo
vittime. Lironia è una sua cifra stilistica o
è, anzitutto, la sua strategia per vivere? Una
battuta, spesso, è una buona arma contro la tragedia. I
suoi libri sono stati pubblicati in Israele? Il primo,
con un titolo diverso, Cappuccino a Ramallah. Perché
Sharon in Israele è un nome comune, come dire Giuseppe, e
si sarebbero chiesti: Giuseppe chi?. Qual è
leffetto che si è prefissa nel pubblicarli? Mostrare
che in Palestina cè vita. Andiamo al cinema,
festeggiamo Pasqua e Natale. Nessuno ha voglia di aiutare chi è
mezzo morto.
Intervista
di Maria Serena Palieri LUNITA
09/09/2005
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