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Lessico dell'imprevisto |
Di Paul Auster è definibile lo stile: di testa, magistrale nella combinazione di storie e storie dentro le storie, come nell'errare tra mondi virtuali, le veridicità della sua amata New York romanzesca e brani di film o di romanzi, dentro il romanzo primario, che la riflettono. In più, suo è l'amore per la situazione forte: la morte, l'incidente, il disastro, come eventi dai quali sgorga il sentimento che viene raccontato. Che, anzi, viene diagnosticato come una sindrome. Quello che è imprevedibile, nello scrittore oggi cinquantaseienne, è il cosa da una stagione all'altra darà ai suoi lettori (diciamo meglio, i suoi devoti: fate un giro su www.paulauster.co.uk, il sito che degli adepti gli hanno dedicato). Poesie, racconti per bambini, romanzi, saggistica, film: ha fatto tutto, con un orgoglio, che traspare, per il governo dei diversi mezzi. Stavolta Paul Auster ci stupisce dandoci, semplicemente, un romanzo di media lunghezza e assolutamente austeriano, La notte dell'oracolo (Einaudi, pagg. 207, 16,50, traduz. di Massimo Bocchiola), dopo un precedente romanzo di media lunghezza e assolutamente austeriano, Il libro delle illusioni. La notte dell'oracolo è austeriano al meglio: nel senso che la complessità della struttura narrativa non ha momenti di gratuità, ed è una cavalcata che conduce il lettore verso un'agnizione che, dal finale, illuminerà di luce nuova la storia dal suo inizio. In scena un giovane scrittore, Sidney Orr, reduce da una malattia che stava per ucciderlo, sua moglie, la splendida Grace, e uno scrittore più anziano, John Trause, che li protegge ma che è in punto di morte. Poi c'è un taccuino che Orr compra e sul quale comincia a esercitarsi dopo mesi di inazione, c'è la sceneggiatura che gli commissionano, un rifacimento della Macchina del tempo di H.G. Wells, e che potrebbe risolvergli la débacle economica conseguenza della malattia, e molte cose strane che entrano piano piano nella trama. Auster ci racconta come e perché sia nato questo romanzo.
La gestazione della Notte dell'oracolo è stata assai lunga. Ce la riassume? Mi ci sono voluti anni per mettere insieme la trama. L'idea originale risale al 1982, quando stavo scrivendo un racconto su un taccuino incantato. Ma la storia non mi piaceva e la misi da parte. L'idea, però, era rimasta lì, non l'avevo abbandonata. Sette-otto anni dopo ricevetti una lettera da Wim Wenders: aveva letto i miei libri, gli erano piaciuti e pensava che avremmo potuto, prima o poi, fare un film insieme. Alcuni mesi dopo ci incontrammo, ci trovammo simpatici e io stesi un trattamento di quindici pagine. Ma il produttore si trovò in bolletta e il film non si fece mai. E anche quella di quel trattamento è una storia confluita nel romanzo: l'idea del libro nel libro, della Notte dell'oracolo che il mio protagonista, Sidney Orr, scrive ispirandosi a un passaggio del Falcone maltese di Dashiell Hammett. Poi, via via, sono arrivati altri elementi: nel 1997 sono andato a Varsavia e il mio editore polacco mi ha regalato un elenco telefonico della città del 1937. Me l'ha dato perché nell'elenco compariva un Auster: era un mio parente? Era stato ucciso dai tedeschi durante la guerra? E l'elenco, che compare anch'esso nel romanzo, mi ha aiutato a cominciare a tirare le fila. Nel '98, dopo aver pubblicato Timbuctù, ho messo giù venti pagine. Poi sono passato al Libro delle illusioni e infine sono tornato definitivamente su questa storia. Il taccuino incantato che costringe lo scrittore, dopo la malattia, a tornare a scrivere, e che, però, creando un cortocircuito tra presente e futuro, fa anche deflagrare la sua vita, qui è blu: è un quaderno portoghese che compra nella bottega di un'enigmatico cinese, mister Chang. La sua personale biografia è piuttosto costellata di taccuini rossi. Cosa rappresenta il blu ai suoi occhi e cosa il rosso? The red notebook era un mio libro di storie vere e si chiamava così semplicemente perché davvero il taccuino su cui man mano le avevo annotate era rosso. Se va a vedere anche nella Trilogia di New York compare un taccuino di questo colore. Mentre nel Paese delle ultime cose è blu quello della protagonista. Il blu per me è il colore della riflessione e della meditazione, il rosso dell'attività e dell'estroversione. Insomma, l'importante non sono i colori ma i taccuini disseminati qua e là nei suoi romanzi che, spesso, sono infatti metanarrazioni. C'è un altro elemento ricorrente nella sua scrittura: la catastrofe. La catastrofe nei suoi ultimi libri va occupando un posto sempre maggiore: nel Libro delle illusioni il protagonista era reduce da un incidente aereo che gli aveva ucciso moglie e figli, qui la catastrofe è all'inizio, la malattia che è stata sul punto di portarsi via il protagonista, e un altro tragico disastro incombe, nuovamente, sul finale. L'idea del destino sotto forma di catastrofe è, a suo parere, molto americana? No, è universale. Tutti sappiamo che la vita dipende da avvenimenti inaspettati. Può finire da un momento all'altro e non sai cosa succederà tra un attimo. A volte succedono cose bellissime, altre volte terribili: cadi, ti rompi il collo... In questo romanzo l'amore che l'uomo, Sidney, prova per la sua donna, Grace, è tale che regge alla rivelazione del tradimento. Voleva, così, dirci qualcosa di più generale sull'amore? Sono fatti, Sidney ama sua moglie in questo modo, la sua è una grande passione. In realtà la sua idea del tradimento di Grace è solo un'ipotesi: di certo sa solo che lei aveva avuto una relazione col suo amico, lo scrittore più anziano John Trause, prima di conoscerlo, poi annota sul taccuino blu il seguito, la ripresa del rapporto dopo, mentre lui stava male, ma è solo una sua speculazione. Pure, continua ad amare Grace: questo è l'amore nella forma più pura. Mettiamo insieme un po' di parole del suo lessico: catastrofe, inaspettato, caso, coincidenze. Benché la sua scrittura sia spesso cerebrale, non crede di avere una visione della vita, tutto sommato, basata sul trionfo dell'irrazionale? Noi umani abbiamo desideri, volontà, formuliamo pensieri sul futuro. Quello che è interessante, però, nella vita, è il fatto che siamo tutti capaci di fare dei piani per il domani, ma poi arriva l'inaspettato e interferisce coi nostri progetti. E, nonostante le nostre capacità decisionali, eccoci a dover fare i conti con l'imprevisto. Pensi alla guerra, che cambia la vita di masse di persone. Pensi alla malattia. O, anche, a semplici circostanze sociali: vorresti fare delle cose e sei troppo povero per farle. A me interessa guardare il comportamento degli individui quando arriva quel quid che sconvolge i piani. In questo romanzo il quid della catastrofe che incombe sul finale è un ragazzo, Jacob Trause, il figlio di John: sembra il Male nella versione assoluta. Sì, è il Male. Occidente, oggi, ci sono tanti giovani con la personalità distorta, come lui, dall'uso delle droghe. Le droghe cambiano le personalità. E' inevitabile che Jacob sia lì e si comporti in questo modo. Perché è la verità, ci sono ragazzi abbandonati a se stessi che finiscono così. Jacob ha avuto un padre part time e, si scopre, anche una madre non all'altezza. Lei ha avuto un mentore nella scrittura, come lo è Trause per Sidney in questo romanzo? Quand'ero ragazzo molte persone mi hanno dato consigli. In particolari mio zio Alan Mandelbaum, era un traduttore famoso, tra gli altri aveva tradotto Dante. Quando ero sui sedici-diciassette anni gli davo da leggere le mie poesie. Più tardi, a Parigi, ho stretto amicizia con Edmond Jabes. Era come un nonno per me. Jabes, il poeta ebreo egiziano che oppose il gran rifiuto a entrare nel gruppo dei surrealisti? SÌ, ed è stato lui a dirmi una cosa alla quale penso che mi accingo a scrivere: Il sogno di ogni scrittore è cambiare le persone e questo è un sogno spesso irrealizzabile. L'avanguardia lavora sovvertendo grammatica e sintassi. Ma l'unica cosa che muove il mondo e le persone, in realtà, è la chiarezza. Prendiamo un esempio di scrittura chiara: Kafka. Le sue frasi sono nette. E ancora oggi ci parla. Prossimo appuntamento con un romanzo, un film? Un romanzo, ci lavoro da un anno e mezzo e sta andando avanti abbastanza bene. Poi credo che scriverò una sceneggiatura, ma per qualcun'altro, non credo che dirigerò di nuovo un film, per ora. Intervista di Maria Serena Palieri L'UNITA' 25/07/2004 |
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