L'esplosione
del maggio 1954 nella miniera di Ribolla in cui perirono
quarantatré minatori fu determinante nella produzione
letteraria dello scrittore Luciano Bianciardi. Tale
evento lo portò a lasciare i suoi minatori maremmani,
salire su un treno e fuggire a Milano. Luciano Bianciardi
era nato a Grosseto nel dicembre del 1922 ed anche se era nato in
pianura aveva respirato l'aria delle Colline Metallifere e delle
sue miniere. Il padre era di Prata paese fra la miniere di
Niccioleta e Boccheggiano mentre la madre delle parti di Roselle.
Quando faceva il bibliotecario aveva girato per lungo e per
largo la provincia grossetana, con una giardinetta scassata,
poiché aveva fondato una "biblioteca errante".
Sugli improvvisati scaffali ricavati da una vecchia vetrinetta
nella cooperativa dei minatori di Gavorrano si
potevano leggere senza molte formalità libri come il
Germinale di Zolà oppure La storia di Roma di Kovalev e
Sergej Ivanovic. Girava per le miniere anche quando veniva
a fare comizi elettorali con il Cassola nelle vicinanze dei
pozzi, nelle stesse piazze dove in quei giorni si
confrontavano personaggi come La Pira e Paietta. "Una
voce solitaria, ha amici comunisti, la gente commentava :"
ma come ? il figlio della maestra. Un laureato!" "E
così ho scelto di stare dalla parte dei badilanti e dei
minatori della mia terra, quelli che lavorano nell'acqua gelida
con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento,
duecento metri sotto terra, consumano giorno a giorno i polmoni
respirando polvere di silicio" "Detesta le
tessere. E' anarchico individualista." L'io narrante
dei suoi scritti è l'intellettuale che improvvisamente
lascia la provincia, seguendo ( nel suo immaginario percorso
letterario) la tacita missione conferitagli da un minatore di
Ribolla di distruggere la sede dell'azienda responsabile della
morte dei minatori. Bianciardi stesso spiega in una sua lettera
inviata da Milano: "Quando mi proposero di venire quassù,
io mi chiesi se era giusto lasciare i badilanti ei minatori,
della cui vicinanza sentivo molto il bisogno e significato. Non
solo: pensai anche che la lotta, quassù, si poteva
condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto
diretto con il nemico. Mi pareva che quassù il nemico
dovesse presentarsi scoperto e visibile." A Milano
non riuscì a realizzare questo intendimento ma di li
a poco si "integrò" nella città e
da quel momento in poi la sua diventa una "vita agra".
Il confronto della vita milanese rispetto ai
paesi ed agli avvenimenti della sue colline ricorre come
un'ossessione nei sui scritti: "Mi ricordo che il
vecchio Lenzerini, al suo bottegone di Scarlino Scalo, teneva
tutta questa roba e altra ancora anche i cappelli teneva, i vasi
da notte, il baccalà a mollo e i lumi a carburo. Ti
preparava anche un cantuccio di pane col salame, il Lenzerini....
Davanti al bottegone c'è uno spiazzo dove razzolano le
galline, e niente passaggio zebrato." E in quell'
"esilio milanese" di delusione scattò una grande
nostalgia per i suoi luoghi: "Il fatto è che,
passando gli anni, i ricordi anziché allontanarsi si
avvicinano" "Continuo a guardare verso il
gabellino, e mi viene alla mente con nostalgia, quell'altro
Gabellino, messo giù a valle a mezza strada fra Prata e
Boccheggiano, dove si doveva cambiare il postale, scendere da
quello di Roccastrada, salire sull'altro per Massa Marittima..".
Ormai sfiduciato per la realtà si calò
nel passato, nella storia risorgimentale, e prese le
vesti di un suo compaesano, il gavorranese, Giuseppe Bandi,
vissuto un secolo prima e ricorrente nei racconti dei sui
familiari. In questa nuova identità cercò di
rivivere l'avventurosa spedizione dei Mille. Ma la vita di
Milano e la fuga da se stesso alla fine lo travolsero
completamente: "Non che voglia fare l'esule. Mi sento
in colpa, questa è la verità, con tutti voi. Non
dovevo scappare. a volte mi sembra di aver tradito la mia città,
voi amici, le mie origini, venendomene quassù."
" Chissà se riuscirò a trovare la
strada di Itaca, un giorno?." Ma quell'Ulisse di
Bianciardi, che aveva tentato inutilmente di portare il "cavallo"
dentro le mura della città non riesce più a
ritrovare la sua Itaca e la sua tormentata esistenza
si concluse con una fuga definitiva. Tutto quello che
ha fatto, pensato, sofferto pare svanito nel nulla, insieme a
quel mondo minerario da lui descritto ma le pagine da lui
scritte sono indelebili.
Il
Bianciardi morì nel 1971 mentre il "torracchione"
( come egli definiva il grattacielo milanese sede della società
mineraria ) che metaforicamente per tutta la vita cercò di
distruggere, oggi sopravvive allo scrittore, anche se ha cambiato
utilizzo.
Nota
: (le frasi fra "...."
sono tratte dalla seguente bibliografia bianciardiana):
L. BIANCIARDI e C. CASSOLA "I
minatori di Maremma, Bari, 1956 L.
BIANCIARDI "L'Integrazione", Milano,
1960 L. BIANCIARDI " La
Vita Agra", Milano, 1962 AAVV
" La vita Agra, Lavoro ed industria nel cinema
dell'Italia nel boom economico", Milano 1993
M.C. ANGELINI "Bianciardi",
il Castoro n163 P.CORRIAS"
Vita Agra di un anarchico: Luciano Bianciardi a Milano",
Milano, 1993 L. BIANCIARDI "
Nostalgie", EPTT- Follonica, 1971 L.
BIANCIARDI "La battaglia soda"
Milano, 1969 L.
BIANCIARDI " Da Quarto a Torino" Milano,
1960 L. BIANCIARDI "Daghela
avanti un passo", Milano, 1969
http://utenti.tripod.it/Boccioldmine/agra.htm
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