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Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi: un suicidio a Brera

di Alessandro Mazzola

L’occasione di fuga è un impiego a stipendio fisso alla Feltrinelli Editore, a Milano "città grande e sconosciuta, città operaia, svizzera e lavorativa". È il 1954 quando Luciano Bianciardi arriva nella zona di Brera: a Grosseto, la sua città, non tornerà più. Vita agra di un anarchico a Milano - Luciano Bianciardi a Milano è un libro di Pino Corrias uscito presso Baldini&Castoldi nel 1991, dunque quasi un decennio (e a Corrias questa biografia era costata anni di incontri, viaggi e riflessioni). Parlarne oggi non è fuori luogo: Bianciardi conserva una attualità che continua a perseguitarlo perché il suo essere attuale prende inizio non appena la sua breve parabola giunge a compimento.

Corrias ricostruisce il percorso umano e intellettuale di un "un uomo comune finito in una vita comune per circostanze eccezionali", di un grossetano maledetto – come lo sono i toscani in forza di un topos letterario, ma come lo possono essere tranquillamente umbri piuttosto che molisani o veneti – che espletate le pratiche del curricolo di figlio della piccola borghesia, ceppo negletto quanto formidabile, studi universitari, servizio militare, matrimonio, impiego nell’amministrazione dello stato, avverte nel volgere di un soffio la ruvidezza di uno scorsoio che non gli lascia e mai gli avrebbe lasciato scampo.

Si avverte uno scarto, un cambio di velocità tremendo tra i due tempi di questa vicenda, tra gli anni in Maremma e quelli milanesi. Grosseto e Milano come poli opposti, un qua e un là, un prima e un dopo, Rapallo a parte breve parentesi quasi un apostrofo tra le parole "sto morendo".

"Meglio essere tagliati fuori che tagliati dentro" insegna Gino Patroni. Bianciardi fu un tagliato dentro che fece di tutto per essere tagliato fuori. Non fu Milano ad ucciderlo – la ferita preesisteva – e non fu nemmeno la nervina aria di provincia ad ammorbarne l’anima, ma certo il salto fu grosso da una biblioteca di Grosseto a palazzo Feltrinelli. Il passaggio di cilindrata ci fu e non dovette essere né semplice né indolore; pure, seguendo le evoluzioni di quella vita difficile in filigrana si avverte un senso di ineluttabilità, un tragico sentore di morte annunciata.

Anche la narrazione risente di questa duplicità: distesa, con un ritmo dolce e lento allorquando si tratta di descrivere gli anni in provincia, quelli della formazione, tra sogni di gloria e alzate di ingegno, aperitivi e lavoro culturale, nervosa e concitata quando invece occorre seguire il filo degli anni milanesi, zeppi di lavoro, di incontri, difficoltà, ribellioni. Dal quarto di copertina "Con questo libro Corrias… riaccende una per una le mille luci di una Milano che non esiste più, tra trattorie e case editrici, studi di pittori e cantieri di grattacieli. locali notturni e latteria diurne."

Scorrono veloci le immagini di un mondo magmatico fatto di personaggi col timbro dell’unicità, famosi e sconosciuti, da Tadini a Ugo Mulas, Giangiacomo Feltrinelli e Valerio Riva, Ormanno Foraboschi e Giampaolo Dossena, Morlotti e Saba Sardi – pittori e giornalisti, viaggiatori e visionari avvolti e cullati dall’utero cordiale di un quartiere: "È il quartiere di Brera… isola popolare e ancora tollerante (anche per via dei bordelli che abbondano) chiusa in una mezza dozzina di strade dai nomi insoliti – via Pontaccio, via Fiori Chiari, via Fiori Oscuri, via dell’Orso". Sono gli anni del Bar Giamaica: il racconto diventa una chanson de gestes dove, per questa volta, al centro c’è Bianciardi, riluttante protagonista di un avventura al sapore di grappa balorda e nazionali comuni, libri tradotti con ritmo da catena, notti aspre e bruschi risvegli, libri scritti e pensati, un’avventura breve quanto intensa chiusa con delirante pervicacia "quando ormai aveva deciso che al gioco della torre sarebbe stato lui a lasciarsi cadere".

La terza parte del libro percorre con ostinazione chirurgica la via crucis di Bianciardi; l’ultima stazione è quella della morte, cercata quasi invocata, della solitudine disperata e, paradossalmente, quella del successo dello scrittore che pubblica libri famosi, dei film tratti dalle sue invettive. Altro giro, altri testimoni, Bocca e Montanelli, Vaime, Del Buono e Jannacci, Walter Valdi, Arpino, Domenico Porzio. Bianciardi affoga letteralmente nell’alcol e nella solitudine, muore il 14 novembre 1971 dopo 20 giorni di agonia. Ai funerali si trovano in quattro. Vicenda a tinte forti con un eroe senza speranza e un'eroina, Maria, la donna che condivide con disperata tenacia la vita del suo uomo – e trova la forza di non morire, e di raccontare.

http://www.brera.net/cultura/bianciardi.htm



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