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Massimo Carlotto

Prigionieri del perdono

E' come se fosse stato scritto nella morgue, nella luce senza tempo e sull'acciaio livido di un istituto di medicina legale. Gelido come il tavolo dell'autopsia, pregno di un vuoto siderale che pagina dopo pagina ti riverbera dentro come le parole, i punti di vista, dei due personaggi che ci narrano la vicenda: la vittima e il carnefice, col tempo a ruoli pressoché invertiti, questo è L'oscura immensità della morte (edizioni e/o pp.177, € 13, l'ultimo romanzo di Massimo Carlotto.

Un noir, verrebbe da dire il primo vero noir di Carlotto, disperato – non nel tono ma nell'orizzonte etico – alla maniera di Derek Raymond e del Malet della Trilogia nera, dove ad atterrirci non è il sangue che si versa, né il duplice delitto e bruciapelo durante una rapina e neppure la mattanza di altre due persone in un appartamento, ma il senso di morte che avvolge le routine quotidiane dell'ergastolano e del “sopravvissuto”, la violenza più insopportabile sta lì ancor più che nelle sue manifestazioni più palesi. L'annullamento di ogni desiderio di vita da parte si Silvano Contin, l'uomo che durante una rapina perde la moglie e il figlio di otto anni per mano di due balordi strafatti di coca, e che si desta da quel letargo solo per produrre a sua volta violenza e morte, il tumore che sta per porre fine ai giorni di Raffaello Beggiato, l'ergastolano colpevole dell'efferato delitto, la miseria e il dolore dei molti personaggi minori del romanzo costituiscono l'insieme di un'umanità segnata dalla sconfitta e dalla morte. Un contesto sociale dove tutti i sogni di benessere materiale – per Contin, per Beggiato, per il suo complice Oreste Siviero – dalla villetta, alle macchine, alla morte tra champagne e puttane, sono destinati inesorabilmente a fallire. Se tutto questo cupo tranche de vie s'avvia nel 1989, dalla sanguinosa rapina, e quindici anni dopo, quando il cancro terminale di Beggiato giunge ad un neutralizzato Contin la richiesta di perdono per poter avviare la pratica per la grazia, che la narrazione entra nel cuore nero dei rapporti tra delitto e castigo, tra perdono e vendetta. L'oscura immensità della morte ci dice che la latitanza, la volontà non chiara dello Stato nel concedere o meno la grazia si somma alle colpe degli individui e richiama in vita il rancore delle vittime, e Silvano Contin presto si trasforma nel dispensatore della sua vendetta. Forzando al massimo il manicheo privilegio del lettore, Carlotto ci fa vedere che da un certo punto in poi dire chi è il buono e chi il cattivo è una scelta non più esercitabile. Davanti al dolore, davanti a opzioni come perdono, grazia, vendetta l'individuo da solo vacilla, a volte cade.

Lungo questi dieci anni il suo lavoro si è andato definendo come un insieme di narrazione fiction e d'inchiesta in cui di volta in volta ha, con le possibilità che offre il romanzo noir, affrontato dei temi, delle storie di questo paese. In quest'ottica le chiedo com'è nata L'oscura immensità della morte, sia dal punto di vista dei fatti sia da quello extra narrativo?

Erano anni che volevo scrivere un romanzo sull'ergastolo, la malattia in carcere e l'istituto della grazia perché nauseato dall'ipocrisia e dall'ignoranza che obbligano questi temi a non oltrepassare i luoghi comuni. Poi il caso Sofri e Mesina hanno stimolato un dibattito che mi ha indignato profondamente e ho deciso di scrivere questo romanzo, pescando a piene mani dalla realtà di decine di casi di richieste di perdono respinte con odio. Vero e puro.

Silvano Contin, la vittima, colui che ha perso con moglie e figlia tutto quello che aveva, è svegliato dal suo letargo dalla richiesta di esprimersi per la grazia del condannato malato. Questa richiesta mette in moto un meccanismo di vendetta, passando dall'apparente perdono. Lei mette in evidenza proprio l'incapacità dello Stato a far da sé e a rifugiarsi dietro le vittime. Sempre riferimenti al presente?

Le recenti dichiarazioni del presidente Ciampi sulla necessita del perdono dei parenti delle vittime per la concessione della grazia, cancellano di colpo vent'anni di dibattito sul concetto di espiazione e pena in una società moderna. Hanno un sapore vagamente tribale. Lo Stato non ha il coraggio di decidere nell'interesse generale e nel rispetto della costituzione che indica chiaramente il reinserimento sociale come fine del carcere. L'istituzione totale peggiora sempre di più affollata e invivibile, non offre possibilità di recupero e reinserimento e ha il coraggio di lavarsi le mani nel perdono. In carcere la gente cambia. In meglio o in peggio ma cambia. Questo i parenti delle vittime non possono saperlo, non sono certo loro a doversi fare carico del percorso rieducativo di chi ha ammazzato un loro congiunto.

Nel romanzo si racconta anche dell'inconsolabilità della vittima: né la religione, né il volontariato laico, riescono ad accudire, a lenire, il dolore di Contin. Il giudice è legato all'ambiente sociale oppure coinvolge proprio l'impossibilità di vivere dopo omicidi così brutali?

Ho volutamente scelto un personaggio lontano dalla religione e scettico rispetto agli strumenti laici di controllo del dolore perché mi sembrava importante mettere in risalto i limiti delle ricette. La morte per mano criminale viene celebrata dalla liturgia del processo, dove le parti si confrontano su posizioni opposte e inconciliabili. Dopo non interviene più nulla per modificare questa situazione. E l'esperienza insegna che alle vittime la pena non è mai sufficiente. E' sempre troppo poco rispetto al male subito. E l'odio cova negli animi. E si fantasticano vendette giuste e terribili. Anche in persone religiose che, in genere, sono quelle che perdonano meno. “Ci penserà il Signore...”. Dopo la morte, ovviamente.

Sia Beggiato in carcere che Contin nel suo simulacro di vita dopo la tragedia sembrano vivere un'esistenza scandita dalla routine, dalla ricerca di un abbassamento della dimensione temporale. In sostanza come Beggiato anche Contin vive in una sorta di carcere. Così se l'uscita dal carcere di Beggiato è rappresentata dalla malattia, quella di Contin dallo svegliarsi per mettere in atto la vendetta (“mi sentivo vivo”, dice quando passa all'azione). E' d'accordo?

Per quanto riguarda Beggiato mi interessava sottolineare la percezione del tempo in carcere e confrontarla alla lunghezza della pena. Il tempo oggi è diverso dal passato, tutto è consumato più in fretta mentre quello in carcere è immutabile. Il tempo di Contin, invece, è quello dell'isolamento sociale. Terminato l'uso del caso da parte della giustizia e dai media, i parenti delle vittime piombano in uno stato di abbandono. Nessuno si occupa di loro. Dovrebbe farlo la “comunità” in cui vivono ma la realtà è ben diversa. Spesso sono emarginati dall'enormità della vicenda oppure non hanno la forza di ricostruirsi un ruolo sociale.

Carnefice e vittima ci sono presentati senza mediazioni, così è difficile, pressoché impossibile sceglierre di stare con l'uno e con l'altro, eticamente alla fine bene e male si sono sovrapposti. E' un giudizio che va al di là del tema della grazia?

Sì. Ho voluto semplicemente ribadire che le posizioni sono inconciliabili. Quanto meno nei desideri gli offesi ucciderebbero senza pietà, per restituire il male subito. Basta vedere le espressioni di giubilo dei parenti delle vittime che hanno assistito alle esecuzioni negli Stati Uniti.

Il progetto di una vita benestante, gli abiti e le villette, il denaro per essere uguali e invisibili, da Contin a Oreste Siviero, tutti fanno parte del mondo Nordest come pure i vinti di questa storia il commissario e la prostituta. C'è ancora una peculiarità di quell'area o la “nordestizzazione” riguarda ormai tutto il paese?

Questa vicenda poteva essere ambientata ovunque ma ho scelto il Nordest perché peccatore e bigotto per eccellenza e dove trionfano ipocrisia e perbenismo per mascherare una società sempre più contraddittoria e corrotta.

Intervista di Michele De Mieri – L'UNITA' – 12/03/2004

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