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Il baule di Elsa

Era un pomeriggio di aprile. Aprile del 1990. Squilla il mio telefono di casa e dall'altra parte c'è Roberto D'Agostino, che collaborava alle pagine di musica e spettacolo dell'Espresso, il mio giornale di allora. Mi dice: “Ho uno scoop per te, una cosa che neanche puoi immaginare, ho scoperto una storia incredibile. Ti passo a prendere e ti porto in un posto”. Suonava strano. In quel periodo mi occupavo di cose diverse da quelle di Roberto D'Agostino, che faceva soprattutto il critico di costume e il critico musicale. E quindi cercai di capire meglio dove volesse portarmi e perché. Lui mi rispose soltanto: “È una storia che mi ha raccontato Federico Zeri, e che non si ricorda nessuno”. In quel periodo D'Agostino stava scrivendo un libro a quattro mani con Federico Zeri, che uscì poi da Mondadori con il titolo Sbucciando piselli. E Zeri era una miniera di informazioni e di storie. Dopo un'ora D'Agostino passa a prendermi con un vecchio maggiolino Volkswagen, cabriolet, e in pochissimo tempo arriviamo alla misteriosa destinazione. L'indirizzo è via di Villa Ada, una strada di una Roma inizio secolo, coi pini marittimi in fila al centro della carreggiata, a pochi metri dal parco romano che fu residenza dei Savoia fino al 1946. Chi abitasse al pianterreno di quella casa lo avrei scoperto subito. Si aprì una porta di legno e ci apparve una donna anziana: Elsa De Giorgi, l'attrice dei telefoni bianchi.

La De Giorgi era diventata celebre nell'Italia della seconda metà degli anni Trenta per aver interpretato un serie di film molto patinati e frivoli. Ma se come attrice era nota a molti, pochi sapevano che la De Giorgi era stata protagonista e musa degli ambienti intellettuali italiani degli anni Cinquanta. Al punto tale che proprio nel 1955, finì per pubblicare un libro a metà tra romanzo e testimonianza personale che si intitolava I coetanei, 300 pagine di testo con una entusiasta introduzione di Gaetano Salvemini.
Il romanzo uscì da Einaudi, e di quel romanzo Calvino conosceva ogni riga, fu lui a essere incaricato dell'editing, e di curare la parte redazionale della De Giorgi. E fu da lì che iniziò la loro storia. Calvino, abituato a redattrici editoriali di fascino incerto dovette trovarsi di fronte, nelle stanze dell'Einaudi di Roma a una specie di Crudelia De Mon inaspettata e formosa, nota nella Roma di allora perché beveva soltanto champagne, e siccome nelle trattorie degli intellettuali che lei spesso frequentava al massimo trovavi il Frascati, o il vino sfuso, arrivava nei ristoranti con la sua bottiglia personale. Ma quando arrivai a casa sua, a Roma, erano passati troppi anni. C'era da giurarci che nessuno si ricordava più di niente: né del romanzo della De Giorgi, né della sua storia con Calvino. E riguardo ai suoi film, quelli non passavano nemmeno in televisione d'estate, alle due del pomeriggio o alle tre di notte. Tutte cose girate il 1933 e il 1944. Soprattutto in tempo di guerra. Con registi, eccetto Mario Camerini, finiti nell'oblio e titoli improbabili L'eredità dello zio buonanima, Ninì Falpalà, Capitan Fracassa, o Sant'Elena, piccola isola. Ma queste cose le avrei scoperte dopo. Il buon Roberto D'Agostino non mi aveva dato il tempo neppure di documentarmi.

La De Giorgi mi apparve alla porta come una anziana donna che non aveva perso il piglio della diva. Il naso dritto, gli occhi ancora come quelli delle vecchie fotografie del cinematografo, lo sguardo scostante, curioso di niente. Una che non aveva tempo per gli altri, e non concedeva tempo a nessuno. Ci aspettava con impazienza ed era già impaziente che ce ne andassimo, mostrava sufficienza per tutta la faccenda che stava per mostrarci, e al tempo stesso moriva dalla voglia di farci vedere il suo tesoro nascosto, aveva modi vitali e diretti, ma abitava in una casa che per la verità pareva abbandonata da anni. Scuri chiusi, buio ovunque, polvere sospesa che formava una nebulosa imprevedibile. Sugli scaffali di una libreria piena di monografie d'arte, che occupava l'intera parete del soggiorno, c'erano fotografie di ogni tipo, dentro cornici in argento ossidate: bianchi e neri di scena, qualche foto privata. Una di queste, messa proprio al centro in modo che si vedesse molto bene, mostrava lei e Calvino in un ristorante. Con una bottiglia di champagne tra loro, e due coppe semipiene. Il solito champagne. Calvino avevo lo sguardo distaccato e perso, Elsa De Giorgi sembrava in una parte delle sue, la parte non della musa di colui che stava per diventare un grande scrittore, ma di un alter-ego bizzarro, stimolante, eccessivo, ma comunque in quel momento irrinunciabile. Forse qui sta il punto di tutta la faccenda De Giorgi-Calvino. Poteva il più silenzioso, il più algido, il più rigoroso degli scrittori italiani andare a bere champagne per le trattorie di Roma con una ex attrice, moglie del collezionista Contini Bonacossi, scomparso nel nulla, e ritrovato molti anni dopo a New York, impiccato? Poteva uno scrittore come lui, uno scrittore dell'Einaudi, l'autore del Sentiero dei nidi di ragno, libro di esordio sulla resistenza e del Visconte dimezzato, accompagnarsi con una donna che, tra le altre cose aveva quasi dieci anni più di lui, essendo lei nata nel 1914 e lui nel 1923? Questo è un discorso del dopo. E di tutti i distinguo del dopo. La De Giorgi in quel momento era una autrice Einaudi, recitava in teatro con la regia di Visconti e le prefazioni gliele scriveva Salvemini, mentre le copertine dei libri gliele disegnava Carlo Levi.

In quel pomeriggio improvviso, che stava diventando assordante come una musica a tutto volume che ti arriva chissà da dove, la signora De Giorgi non ritenne di doversi presentare a noi. Per lei era chiaro che della sua vita pubblica noi sapevamo già tutto, anche se io invece sapevo poco o nulla. Neanche a dirlo che non diede il tempo a noi di presentarci a lei. Oggi non ricordo se D'Agostino la conoscesse di già, ma ricordo che i nostri nomi le scivolarono addosso come quelli di un figurante in un set di quelli suoi, genere La mazurka di Papà, per la regia di Oreste Biancioli.

Ma tutto questo contava poco. Quello che contava davvero era il baule. Il baule, che contrastava con l'eleganza de-labré di tutta la casa, pareva quello del pirata Billy Bones nell'Isola del Tesoro. Smangiato negli angoli, consumato ovunque, comprato chissà quando e chissà dove. Mancavano solo le iniziali dell'attrice marchiate a fuoco, e le mappe marinare antiche con l'indicazione di isole misteriose. A suo modo quello era il suo baule da arrembaggio. Con gesti che mi ricordavano certe intemperanze da prima donna quando il truccatore è in ritardo, aprì il baule sollevando un'altra nebulosa di polvere. Lo fece eccitata e scocciata. Chi aveva insistito perché arrivassimo lì? C'era lo zampino di Zeri, questo ormai era certo. Che era stato buon amico del marito di Elsa De Giorgi, e che era a conoscenza di tutta la storia tra la De Giorgi e Calvino. E c'era l'intuito di D'Agostino che già da allora, e forse senza neanche saperlo, faceva le prove generali del suo Dagospia.

“Eccole!”, mi disse la De Giorgi, come fosse costretta a consegnare un bottino a un bandito armato di pistola, anche se io non le avevo chiesto proprio nulla. Era un “Eccole!” da scena finale di un film dei suoi, con la voce che si spezzava sulla “o”. Disse “Eccole!” senza guardare la macchina da presa, che in quel caso era sostituita dallo sguardo perplesso mio e di D'Agostino. Aveva affondato le mani nel baule, e aveva tirato fuori, a casaccio, senza una regola, un fascio di lettere. Il caos là dentro aveva qualcosa di stupefacente. Non le aveva conservate in ordine, legate con un nastro rosa, non le aveva profumate con la lavanda, non le aveva tenute come fossero una reliquia da venerare. Ma erano pigiate e scaraventate a caso. Alcune piegate in quattro, altre aperte. Mentre le afferrava qualcuna scivolava sul tappeto. Erano scritte a mano, ovviamente, con una calligrafia frettolosa, e direi persino appassionata. Delle lettere che vidi io, nessuna era firmata. Quasi tutte avevano una iniziale, una “I” maiuscola, e nient'altro. Cominciai a leggerle, stupito non di una storia d'amore, di cui tutti erano a conoscenza, ma della quantità di pagine che lui le aveva scritto in un tempo relativamente breve. La De Giorgi neanche ci invitò a sederci, anche perché i divani erano coperti da lenzuola bianche, e la casa man mano che ci si abituava alla penombra sembrava sempre più abbandonata e disabitata.

Ricordo che restammo a un metro dall'ingresso per tutto il tempo in cui lei ci mostrava le lettere. Tutti e tre accanto a quel baule. Che era stato messo proprio davanti alla porta di casa. La De Giorgi aveva fretta, noi no. “Guardi questa”, me la passava, neanche cominciavo a leggere che lei me la strappava di mano per darmene altre. Non ci si capiva niente. “Lei pensa che si possano pubblicare?”, mi chiese, senza neppure aspettare una mia risposta. Non lo sapevo, ero stato investito da un'onda brusca che sembrava arrivare chissà da dove, e dovevo raccapezzarmi in tutto quel pasticcio.

Soltanto dopo avrei scoperto che Elsa De Giorgi fu un problema per il silenzioso e discreto Calvino. Un giorno a Roma lei arrivò alla presentazione di un libro. Il presentatore era Calvino, e mentre lui parlava lei distribuiva le sue lettere d'amore al pubblico. Un'altra leggenda dice che una volta lo minacciò con la pistola. Forse era vero. Era quello il periodo in cui Calvino conobbe la futura moglie Ester (detta Chichita) Singer, e la De Giorgi non si era ancora rassegnata a perdere il suo giovane scrittore. Il sovrapporsi delle due donne spiega ancora oggi il fastidio della vedova di Calvino nei confronti di una storia lontana.

Ma quel pomeriggio la De Giorgi aveva fretta e io avevo bisogno di tempo. Le due cose non andavano assieme. Prese una trentina di lettere e me le diede, o meglio me le buttò quasi addosso, andando subito a cercare una cartellina di plastica che naturalmente non trovò: il giorno dopo gliele avrei restituite per corriere. Nel frattempo dovevo fotocopiar-le, e farmi un'idea di quello che c'era scritto in quel fascio di roba emerso dal baule. L'idea me la feci subito andando a leggere quello che c'era scritto là dentro. Trovai subito una considerazione di Calvino. Elogiava la De Giorgi per aver capito a fondo e meglio di altri Pier Paolo Pasolini: “Il ritratto del giovane P.P.P. è molto bello, uno dei migliori della tua vena ritrattistica, di questa tua intelligenza sulle personalità umane, fatta di discrezione e capacità di intendere i tipi più diversi, questa tua gran dote largamente provata nei Coetanei. È la stessa dote che portata all'estremo accanimento dell'amore ti fa dire delle cose così acute e sorprendenti quando parli con me di me che ti sto a sentire a bocca aperta, abbacinato insieme d'ammirazione per l'intelligenza, o inconfessabile narcisismo, e di gratitudine amorosa”.

Ma era chiaro che per la legge sul diritto d'autore quelle lettere appartenevano a Italo Calvino, e non a Elsa De Giorgi. Dunque, essendo Calvino scomparso da cinque anni, erano di proprietà di Chichita. E ci volle poco, bastò una telefonata, per avere chiaro che neanche una riga di quelle lettere poteva essere pubblicata. Perché Chichita non avrebbe mai dato il permesso. Poi, certo, gli escamotage c'erano e ci sono stati. Le lettere qualche anno dopo furono comprate dal Fondo Manoscritti degli Autori Contemporanei fondato da Maria Corti, e sono stati pubblicati stralci, virgolettati, che un'idea la danno, ma che non spiegano affatto, però, la portata di quelle lettere. Le mie fotocopie delle lettere di Calvino alla De Giorgi, sono andate perse in un trasloco, una cosa imperdonabile.

Negli ultimi giorni, come una malattia ricorrente, è riscoppiato il caso. Accade periodicamente. Accadde allora quando si riscoprirono le lettere. Poi molto se ne parlò quando quelle stesse lettere vennero comprate dal Fondo di Pavia. Ora succede ancora. Un po' inaspettatamente. Il Corriere della Sera, con due articoli di Paolo Di Stefano, è tornato su quelle lettere, e sulla loro importanza. Repubblica, giornale con cui Calvino aveva un legame particolare, per essere stato amico di Eugenio Scalfari fin dall'adolescenza, ha mandato una giornalista a intervistare Chichita. Che ha subito detto le cose che ripete ormai da anni: quelle di Italo per la De Giorgi erano parole senza importanza. E comunque il Calvino privato non ce lo darà mai. Neanche le lettere alla moglie leggeremo, si è affrettata ad aggiungere. E poi ha detto ancora, tanto per capirci, che la fisiologia è una cosa, l'amore un'altra. E che gli amici di Calvino, i Fruttero, i Citati... sorridevano a quella passione per l'attrice bella e fatale dei tele-foni bianchi.

Tutto si perde in un intreccio di cinquant'anni fa, la De Giorgi è morta nel settembre del 1997. E sono anni che si vuole far passare tutta questa storia come una vicenda di donne, che hanno giocato una partita a distanza, per decenni. Probabilmente così non è. Quel che è certo è che le parole di Calvino non erano frutto di un cedimento intellettuale, di una passione frivola, di una fisiologia incontrollata. Quel pomeriggio di aprile del 1990, quando stavo per uscire dalla porta di casa sua, la De Giorgi si rivolse a me bruscamente, con l'aria di chi sa che ti sta dando un avvertimento. “Guardi che quelle lettere sono autentiche. Anche se Calvino non sembrava così”. Intendeva dire che il Calvino appassionato di quelle lettere non corrispondeva a un'immagine a cui ci eravamo tutti abituati. Dieci anni dopo, Mondadori manderà in libreria un volume di Lettere di Calvino, dal 1940 fino alla morte, al 1985. È il volume definitivo dell'epistolario del grande scrittore. E contiene poco meno di mille lettere scritte da Calvino a critici, editori, scrittori, e via dicendo in quasi mezzo secolo. Mancano le trecento lettere che spedì a Elsa De Giorgi. “Lei crede che si possano pubblicare?”, mi aveva chiesto la De Giorgi prima che me ne andassi. Sono passati quasi 15 anni, e nessuno è ancora riuscito a pubblicarle.

Roberto Cotroneo – L'UNITA'- 10/08/2004

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