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Oltre il confine tra uomini e macchine |
Pochi
autori devono la loro fama a romanzi tessuti con un filo che si
annoda stretto alla grande letteratura, senza perciò cadere
nel manierismo, e Michael Cunningham è fra questi. Deve il suo
successo a un libro titolato Le ore che si incammina passo
dopo passo sulle tracce di Virginia Woolf, e ora ne ha scritto un
altro il cui titolo riprende senza variazioni le memorie di Walt
Whitman, riproducendo i suoi versi quasi a ogni passaggio di dialogo.
Ma Giorni memorabili è un omaggio alla poesia non più
di quanto lo sia alle emozioni che ci ricordano la nostra fragilità
quotidiana. Nulla nell'aspetto di Cunningham farebbe sospettare una
empatia così intensa con chi sopravvive a stento ai margini
della presentabilità sociale, eppure è proprio in
questi recessi che vivono i suoi personaggi migliori, i più
palpitanti di carne e sangue, come recita uno dei suoi titoli
più fortunati. La fisionomia di Cunningham è
difficilmente dimenticabile per chi lo abbia incontrato anche una
sola volta: la statura alta si associa in lui a un fisico da ragazzo,
nonostante abbia passato i cinquant'anni, e il suo sguardo è
sempre pronto a cogliere la sintonia dell'interlocutore con la
battuta che gli tenta le labbra. Siamo in un albergo di Roma noto per
avere ospitato molti grandi scrittori del passato, Cunningham sembra
perfettamente ambientato, di ottimo umore, pronto a rispondere del
suo romanzo, di cui è pienamente soddisfatto.
Cominciamo
con una domanda che riguarda la struttura del libro. Qual è
l'idea che le interessava verificare quando ha deciso di dividere il
romanzo in tre episodi ambientati nel passato, nel presente e nel
futuro?
L'idea era quella di raccontare una storia che
avesse inizio nel periodo della rivoluzione industriale, quando
tramonta l'economia fondata sulla agricoltura e comincia quella
affidata alla meccanizzazione, perché da qui prende avvio un
futuro pieno di incognite. E intendevo esplorare l'evoluzione della
tecnologia attraverso i tempi, scrivendo del rapporto sempre più
complesso tra uomini e macchine. Poi questo progetto si è
scontrato con una riflessione sull'utilizzo dei generi letterari:
nella maggior parte dei casi producono libri terribilmente brutti, ma
ci sono delle eccezioni: soprattutto nel campo della fantascienza
sono stati pubblicati alcuni romanzi davvero buoni. Così ho
deciso di saggiarmi anch'io nella scrittura di diversi generi, per
capire cosa potevo trarre da ognuno di essi.
Non le sembra
che il fatto di fare corrispondere agli stessi nomi personaggi
diversi renda problematica l'unità del romanzo?
La
mia speranza era, al contrario, quella di dare un maggiore senso di
unità al libro, perché è vero che i personaggi
appaiono trasformati a seconda del tempo in cui si svolge l'azione,
ma nell'animo restano sempre gli stessi. Quel che mi interessa è
ciò che c'è in noi di immutabile, di essenziale. Anche
quando scrissi Le ore, inizialmente pensai di ambientare la
figura di Clarissa Dalloway in un contesto contemporaneo, perché
questo consentiva a una figura femminile maggiore libertà di
movimento. Ma poi ho abbandonato l'idea. Comunque, è anche
vero che avrei voluto titolare questo mio ultimo libro Tre
novelle, ma il mio editore americano insisteva per definirlo un
romanzo, naturalmente perché sperava che avrebbe venduto di
più.
Tra i poche elementi che ritornano, a dispetto
dei cambiamenti subiti dai personaggi, c'è una tazza con una
decorazione misteriosa, che passa di mano in mano tramandandosi
attraverso le generazioni. C'è una ragione particolare per cui
ha scelto questo genere di oggetto per rappresentare la sopravvivenza
delle cose agli uomini?
Non vorrei sembrare presuntuoso,
ma avevo nelle orecchie La tazza d'oro di James, inoltre
questo oggetto che passa di mano in mano mi sembrava potesse
avere qualcosa in comune con il sacro Graal. Come i grandi libri,
Foglie d'erba di Whitman per esempio, che cito a più
riprese, sconfigge il passaggio del tempo, occupa uno spazio ma allo
stesso tempo definisce il vuoto. Inoltre, desideravo che la tazza
portasse con sé un messaggio, ma lo volevo privo di
senso.
Nella prima parte del libro lei descrive una
macchina che sembra dotata di volontà, di passioni, insomma di
sentimenti umani. Nell'ultima sezione, invece, il protagonista,
Simon, appare come un uomo ma è in realtà una creatura
artificiale: sembra che abbia il potere di prendere decisioni, ma
tutto quel che fa è programmato. C'è qualche
coincidenza tra questa finzione e la sua idea del destino che ci
aspetta?
Sì, perché credo che stiamo andando
incontro a un futuro nel quale sarà sempre più
difficile definire cosa intediamo per umanità. Sono certo che
già oggi la tecnologia permette di clonare gli esseri umani, e
prima o poi ci saranno computer in grado di pensare in modo creativo,
di elaborare le informazioni per giungere a diverse ipotesi, proprio
come avviene nella nostra mente. Qualcosa di simile, d'altronde,
succede già nel Mondo nuovo di Huxley, il quale a sua
volta riprende l'idea dalla Tempesta di Shakespeare. Ho
pensato di fare arrivare il personaggio di Simon, questo
uomo-macchina, sulla soglia di una rinascita di ciò che meglio
definisce l'essere umano: forse può sembrare un po'
sentimentale la sua decisione di restare al fianco della
extraterrestre quando lei sta morendo, ma per fargli passare il
confine tra la macchina e l'uomo ho pensato di consegnarli la
capacità di provare empatia, perché questa è una
delle nostre qualità più misteriose: non serve a nulla,
non obbedisce a alcuno scopo di adattamento all'ambiente, eppure è
una delle doti che meglio ci definiscono.
Infatti,
l'emotività di Simon è contagiosa per il
lettore...
Forse è proprio questo lo scopo dei
romanzi, mostrarci cosa possa significare scendere nei panni di
un'altra persona, essere altro da ciò che siamo. Per toccare
le corde emotive dei lettori bisogna essere in grado di immaginare un
personaggio nella sua interezza, e nessun altro libro raggiunge
questo scopo, secondo me, meglio di Madame Bovary. Come
romanziere, io vivo nella sua ombra: è una donna deplorevole,
superficiale, falsa, non è nemmeno in grado di provvedere al
figlio, eppure proviamo empatia per lei, e questo dipende dalla
capacità di Flaubert di scrutarla così da vicino.
Il
suo sguardo sul futuro, nella parte finale del libro, è
piuttosto ironico che pessimista, è d'accordo?
Sì,
d'altronde molta della fantascienza che amo di più è
satirica, funziona tanto come monito, che come sguardo sul futuro
attraversato da uno humour un po' nero. A me, per esempio, piace
immaginare un domani in cui l'America sia in profondo declino, finita
come superpotenza, ridotta a cedere il potere a altri: non mi sembra
poi così improbabile.
Come mai ha scelto di
rappresentare il ragazzo dodicenne, che torna in tutte le parti del
libro, come un piccolo elfo, deforme e strabico?
Forse per
analogia con il fatto che ognuna delle tre parti del romanzo è
ambientata in un momento difficile, un momento di passaggio, in
quanto tale anch'esso un po' malformato, e dunque mi sembrava
adatto il ruolo di un bambino che è il frutto di una mutazione
genetica.
A un certo punto del libro lei descrive
l'incontro tra Lucas, il bambino protagonista della prima parte del
libro, e Walt Whitman. Non si capisce bene se il poeta sia una
apparizione reale o se sia una fantasia della mente visionaria di
questo ragazzino, che sa a memoria tutti i versi di Foglie
d'erba.
È bene che uno scrittore sappia
se ciò che descrive appartiene alla realtà o meno, e io
ho pensato questo incontro come realmente avvenuto, sebbene al tempo
in cui ambiento l'episodio, cioè verso il 1865, Whitman non
fosse a New York. Non a caso ho fatto precedere il romanzo da una
avvertenza in cui dichiaro che non tutto quanto racconto è
fedele alla realtà storica. Detto questo, se poi il lettore
preferisce considerare l'incontro come un prodotto della fantasia, mi
fa piacere che abbia la libertà di farlo.
Intervista di Francesca Borrelli IL MANIFESTO 28/09//2005
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