La
tua scrittura è spesso molto diversa. Esiste una specie di evoluzione?
Non
la considero un'evoluzione, mi succede di scrivere sempre con un "io
narrante" che racconta i fatti suoi e, a seconda di come è
questo io narrante, che età ha, che urgenza ha in corpo di narrare
la sua storia, viene fuori la sua voce, la sua scrittura. Quello che in
termini alti si può chiamare stile proviene esclusivamente dai
connotati della figura che in quel momento sta raccontando utilizzando
l'"io", l'unica persona che io riesco ad adoperare nella scrittura.
In Aceto, arcobaleno la figura è un vecchio che si sente restituire
dei racconti dalla materia intorno, dalla pietra che ha trattenuto i racconti
degli amici e che glieli risputa fuori, come una specie di magnetofono
naturale. In Tu mio c'è un uomo che ricorda una sua bruschissima
estate di iniziazione, intorno ai sedici anni, e insegue questo ricordo,
andando svelto, si sente che è "tirato dentro", acciuffato
per i capelli dalle memorie e ricostruisce questa sua estate furiosa.
Alzaia invece è una specie di distillato del meglio delle mie letture
e quindi una trasformazione in resoconto, in piccolo commento aggiunto
delle cose migliori che mi sono capitate sotto gli occhi come lettore.
Nel mio ultimo libro, Tre cavalli, chi parla è un giardiniere di
50 anni che pesa le parole con molta attenzione, le mastica e le sputa
fuori lentamente e quindi la scrittura è più sorvegliata
e asciutta che in Tu mio. Non c'è nessuna evoluzione, ci sono teste
che parlano e io che mi faccio prestatore di voce.
Ma
quanto c'è di autobiografico?
M
oltissimo, la stragrande maggioranza delle azioni è autobiografica,
ma non riparlo di quelle storie accadute col desiderio di riprodurle,
di farne resoconto, ma ritorno sul passato col desiderio di dargli un'altra
possibilità. Di far avvenire qualcosa che allora sarebbe potuto
accadere, ma non avvenne per un pelo, o successe non proprio in quel modo
o non con quella prontezza di riflessi, con quella intelligenza di cuore
che non si ha quando le cose accadono, ma si può avere solo dopo,
facendo accadere il passato una seconda volta, dandogli un'altra possibilità.
E
la letteratura è questa seconda possibilità?
N
on so se lo è per gli altri, per me lo è. Ritorno sul passato
con questa intenzione: migliorare non solo l'io narrante, ma anche le
persone intorno. Dare loro un'altra possibilità di capire, di afferrare
qualcosa di più di quello che, allora, di sfuggita, non ha potuto
compiersi.
Dentro
una comunicazione distorta come la attuale, la letteratura permette un
nuovo modo di entrare in relazione?
N
on so se quello che io combino con la scrittura appartiene alla letteratura,
il fatto che un editore mi pubblichi non mi dà questa certezza.
Quello che cerco nella letteratura degli altri, come lettore, è
il dettaglio, la faccenda che riguarda me personalmente, che racconta
qualcosa di me che non sapevo. Non cerco una storia bella, o scritta bene,
ma quella che mi passa accanto, mi tiene compagnia e mi trasporta con
sé perché è mia, intima, dice qualcosa di me che
sentivo, ma non avevo saputo esprimere. La letteratura è questa
piccola rivelazione personale.
Quello
di cui parli non ricorda un po' il concetto di "occasioni" di
Montale?
S
ono un perditore di occasioni, quando ci sto attento le perdo sicuramente.
Mi impegno praticamente a perderle perché credo che l'occasione
perduta non sia in niente più debole dell'occasione presa. Perdere
un'occasione è qualcosa che dà consistenza a una persona,
ne ho l'esperienza e quando perdo un'occasione mi sento più forte.
In genere io cerco di essere presente: se analizzo quello che ho fatto
e quello che ho tralasciato, non mi rammarico di niente, non mi sento
"difettoso". Però c'è nella scrittura una possibilità
in più rispetto alla vita, un specie di commento, di prolungamento
della vita e questo è quello che mi spinge a scrivere. Non per
rivivere, io non torno indietro, non tornerei nello stesso posto, non
sono mai stato capace di riamare la stessa persona...
La
tua è una scrittura, si direbbe oggi, di "valori"...
D
i cose, di persone che si sono "sbattute", date da fare, magari
hanno anche perduto, ma la perdita, specialmente se è profonda,
rende le persone invincibili, le rende non oltre e non più vincibili,
perché non si può togliere loro altro.
Lo
scrittore può o deve entrare nel vivo delle situazioni, della storia,
dell'informazione?
L
o scrittore deve andare appresso al suo diavolaccio, non deve stare a
badare a quello che gli succede intorno, a meno che non sia qualcosa che
lo spinge in modo misterioso ad accucciarsi da qualche parte per scrivere
una storia. Non si devono dare compiti allo scrittore.
Ci
sono molti scrittori da talk show oggi. Che cosa ne pensi?
Q
uesto fa parte del mercato e se uno si presta e cerca le gratificazioni
che dal mercato provengono, deve percorrere questa strada e magari lo
fa anche volentieri, fa parte del meccanismo di promozione, tutto ciò
non riguarda la scrittura. Io ce l'ho con quegli scrittori che avevano
un gran talento, penso a quelli del dopoguerra, ma che si sono messi a
scrivere per il cinema o a scrivere come il cinema, le loro storie, per
poterle riversare su eventuali pellicole perché lì c'era
la celebrità.
E
oggi vale lo stesso discorso per la televisione?
Non
credo oggi sono mestieri un po' separati, chi si mette a scrivere per
la televisione finisce di fare solo quello, allora invece c'è stata
una intera generazioni di scrittori che hanno scimmiottato il cinema.

Intervista
a cura di Grazia Casagrande sta in:
http://www.alice.it/cafeletterari
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