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"Il mio romanzo di Ground Zero"

Non c’è scrittore residente a New York che, a proposito di un suo romanzo uscito dopo l’11 settembre, non si sia sentito chiedere dagli intervistatori in che misura la trama fosse influenzata da quell’evento. Se l’è sentito chiedere Salman Rushdie (Furia descriveva una New York percorsa da un sentimento dominante, la rabbia); personalmente l’abbiamo chiesto a Paul Auster (la storia del Libro delle illusioni cominciava con un disastro aereo). Per sentirci, tutti, da tutti rispondere: "No, l’idea l’avevo in mente da un pezzo". Jonathan Safran Foer, invece, ha scritto un romanzo, Molto forte incredibilmente vicino, che - per quello che ci risulta è il primo - prende il la proprio dalla tragedia delle Twin Towers. Tradotto per Guanda da Massimo Bocchiola, racconta di un bambino di nove anni, Oskar Schell, tamburino (nome e strumento musicale, doppio omaggio di Foer al Tamburo di latta di Gunther Grass), francofilo, vegano, scrittore di lettere ai grandi della Terra, da Stephen Hawking a Ringo Starr, inventore di gioielli esistenziali, ma anche di trovate d’impatto poetico (dopo Ground Zero sogna un sistema di tubi che raccolga le lacrime versate di notte sui cuscini dagli abitanti di New York e che, collegato col laghetto del Central Park, misuri ogni giorno il livello di sofferenza della città). Oskar ha perso il padre l’11 settembre. E, nessuno lo sa, ha ascoltato i cinque messaggi che quello ha lasciato nella segreteria telefonica di casa e che, dalle 8,52 alle 10,26, scandivano la sua attesa della morte nella Torre Nord. Quel padre era un meraviglioso narratore di storie e Oskar si chiede perché non abbia trovato le parole per dirgli, dal cellulare, "ti voglio bene". Forse per questo gli è così difficile accettarne la morte. E forse per questo si mette, in tutta New York, alla ricerca della serratura giusta per una chiave che quello aveva nascosto dentro un vaso: lo porterà a qualche segnale rivelatore? Dentro la New York di Molto forte incredibilmente vicino, poi, entrano - come in una fotografia vista al negativo - altre due tragedie totali e provocate dall’uomo, ma vissute da ex-nemici degli Usa: i due bombardamenti "in più", finali e inutili, del ’45, quello inglese su Dresda e quello americano su Hiroshima. Insomma, Oskar è un geniale, poetico, volenteroso bambino alle prese, sulla propria pelle, con l’enigma del Male adulto. E lo risolve a modo suo: in un romanzo che come già il primo di Foer, Ogni cosa è illuminata, si avvale pure d’invenzioni grafiche, lui sul finale mette la pellicola all’indietro. Come in quel gioco, una sequenza di fotografie con uno dei corpi che volano giù dalla Torre, messa al contrario, riporta su quel corpo: era suo padre? È salvo.

Foer è un ragazzo prodigio che ha tutti i numeri per essere invidiato: ventotto anni, con il romanzo d’esordio ha fatto d’immediato il botto; per questo ha avuto anticipi a sei zeri; è sposato con Nicole Krauss, scrittrice, trentunenne, anche lei acclamata come una rivelazione, e - dalle foto - gran bella ragazza. Forse è per questo che se digitate il suo nome su Google venite investiti da una prima pagina di occorrenze che rimandano a gossip sulla casa da sette milioni di dollari che hanno comprato a Prospect Park e su "strane" similitudini che correrebbero tra i loro romanzi.

A Roma per il festival di Massenzio - il suo reading è questa sera - occhialetti e calzini a righe, appare come un ragazzo allenato al rapporto con i giornalisti. Non avaro di pensieri, ma cauto.

Qual è stata la reazione della sua città, New York, al suo romanzo? Come ha reagito - con gratitudine o sentendosi sfruttato nei propri sentimenti? - chi ha perso qualcuno nell’attentato?

Prima della pubblicazione non avevo avuto rapporti con chi la vicenda l’ha vissuta davvero. Poi sì: ai miei reading ne sono intervenuti alcuni. Sia chiaro, è una tragedia che ha toccato migliaia di persone e io ne ho incontrate cinque o sei. Ma sono stati gli incontri più positivi. Anche se non fosse andata così io dovrei credere comunque nel mio romanzo. La verità di quell’evento è soggettiva: non c’è newyorchese che la veda come un altro.

"Ogni cosa è illuminata" era un romanzo ebraico fino al midollo. Qui, del suo ebraismo, mi è parso di non cogliere traccia. Perché?

Il mio primo libro era più ebreo di quanto fossi io, questo secondo lo è di meno. Non sono ancora riuscito a trovare l’equilibrio giusto. In realtà due romanzi non bastano a dare una vera rappresentazione di uno scrittore. Ce ne vorrebbero sei. Le persone cambiano.

Vuol dire che il successo da subito, precoce, ha i suoi handicap?

Credo che non ci sia altro scrittore che si senta fortunato come me. C’è gente che passa una vita cercando di farsi pubblicare. Qualunque sia il lato negativo della mia situazione è minimo rispetto alla cosa meravigliosa che mi è capitata.

Per Oskar Schell New York non è solo una città: è il pianeta che lo racchiude e dentro il quale cerca una risposta al suo dolore. Così era anche per l’Holden Caulfield di Salinger. Quante volte ha letto quel romanzo?

L’approccio alla città è simile, sì, ma Holden è arrabbiato, mentre Oskar no, anche se avrebbe ottimi motivi per nutrire rabbia. Naturalmente ho letto Il giovane Holden, credo che sia l’unico libro che tutti in America hanno letto. Ma non credo che mi abbia influenzato.

John Updike ha scritto sul "New Yorker" che lei è un narratore troppo rumoroso, con troppi effetti speciali che ledono la sua vena narrativa. Come l’ha presa?

Quando ho finito di leggere la recensione di Updike non ho provato emozioni negative: mi prendeva sul serio, con rispetto. Io e lui siamo, però, lontani per età, religione o, più semplicemente, sono lontani i nostri gusti da lettori.

A lei cosa piace leggere?

I libri rumorosi. Oggi vengono scritti molti libri perfetti, ma non vengono più scritti grandi libri. Escono romanzi ben scritti, ben organizzati, con personaggi ben definiti. Un libro ben fatto lo leggi, lo chiudi, lo metti sullo scaffale e non ci pensi più. A me piacciono i libri che restano aperti. Io vedo una narrativa che va su due filoni: da un lato Roth e Rushdie, dall’altro Updike e McEwan, Roth l’ebreo e Rushdie l’indiano e l’immigrato, Updike e McEwan gli angloamericani. Preferisco i primi. Rushdie, parlando di Underworld di Don Delillo, disse "questo è un fiasco meraviglioso". Samuel Beckett, sul successo, diceva "Si tenta, si fallisce, si ritenta e si fallisce meglio". Io amo gli scrittori che tentano di fare il passo più lungo della gamba. Che tentano in grande, anziché volare basso.

Ha citato solo autori di lingua inglese. Il resto del mondo non esiste?

Se vuole possiamo parlarne per un’ora. Del fatto che negli Usa solo il 3% dei titoli pubblicati deriva da una traduzione. È una questione politica il cui effetto culturale è semplice: possiamo ascoltare solo poche voci. Ho appena letto, con piacere, Budapest di Buarque de Hollanda. Tra i miei dieci autori preferiti metto Kafka, Ovidio, Bruno Schulz, Rilke, Calvino, Grass....

È rimbalzato in Italia il gossip sull’eccesso di similitudini che ci sarebbero tra "Molto forte, incredibilmente vicino", e "The history of love", il nuovo romanzo di sua moglie, in uscita in Italia in autunno anch’esso per Guanda. Solo gossip?

Fatte pari a mille le recensioni, sono cinque o sei i critici che hanno usato questo argomento. Criticare un libro è difficile, metter su una diatriba così è facile. C’è un detto: a un martello ogni cosa sembra un chiodo. Se fossi sposato con Donna Tartt scriverebbero ugualmente: vedi, si copiano uno con l’altro.

Per McSweeney’s lei ha curato il sarcastico "Futuro Dizionario americano", dove una coorte di scrittori ha immaginato come risulterà trasformato il lessico dopo il regno di Bush. Com’è nata l’idea?

Nella campagna elettorale del 2004 mi sono impegnato molto. Tra i vari reading organizzati dal mio gruppo, "Downtown for democracy", ce ne fu uno a New York particolarmente importante, con Susan Sontag e Lou Reed, Auster e Rushdie. Decidemmo a tamburo battente di farne un libro per finanziare la campagna elettorale, e McSweeney queste cose sa farle in fretta. Hanno contribuito in settanta. E abbiamo raccolto centinaia di migliaia di dollar".

E ora, che Bush ha rivinto, lei quanto è arrabbiato?

Si è tristi, quando in Iraq centomila persone sono morte e nulla le riporterà in vita.

Su cosa è al lavoro, ora?

Se guardo la Cnn, ogni giorno spara notizie. Ma uno scrittore è come un telegiornale? Io, se non ho da dire, non scrivo. Scrivere, per me, non è realizzare le mie aspettative nei confronti di me stesso. Mi piace sorprendermi, non mi piace avverare le mie stesse profezie.

Intervista di Maria Serena Palieri – L’UNITA’ – 14/06/2005




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