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Intervista a Leonardo Padura Fuentes |
Leonardo Padura Fuentes è uno dei maggiori scrittori cubani contemporanei. Nato a l'Avana nel 1955 è noto ai lettori europei soprattutto per le inchieste del tenente Mario Conde, che in Italia sono state pubblicate dall'editore Marco Tropea. Giornalista e autore di saggi e inchieste, Padura Fuentes è in questi giorni nel nostro paese per presentare Il romanzo della mia vita (pp. 376, euro 17, 50), sempre per Marco Tropea, un romanzo che si allontana in larga misura dalle atmosfere del poliziesco per indagare invece alcune vicende della storia cubana e in particolare la biografia del poeta José Maria Heredia, uno dei padri dell'indipendenza dell'isola che, intellettuale e massone, morì esule in Messico nel 1905. Abbiamo incontrato Padura Fuentes a Roma.
Signor Fuentes, dopo aver raccontato Cuba attraverso il poliziesco, aveva voglia di scrivere direttamente un romanzo storico?
Non mi interessava scrivere un romanzo storico, bensì un romanzo le cui vicende si potessero immaginare nel presente. Quindi sono partito dalla vita di Heredia, ma ho intrecciato la sua storia con quella di un cubano di oggi, che ha conosciuto l'esilio e che sceglie di tornare a vivere a Cuba. Quest'uomo, Fernando Terry, che è poi il protagonista del libro, riflette sulla sua esistenza, sui tradimenti che lo hanno costretto a lasciare l'isola e finisce in realtà per proiettare una luce sulla vita di Heredia, proprio come le vicende vissute dal famoso poeta un secolo prima, hanno influenzato in qualche modo la sua di vita. E tra gli elementi che più hanno influenzato la vita di Heredia, c'è la sua appartenenza alla massoneria cubana. Chiaramente la massoneria di Cuba aveva un profilo ben diverso da quello che hanno assunto ad esempio molte logge nella storia italiana degli ultimi decenni. A Cuba, la massoneria ha avuto sempre più un carattere etico e sociale che non politico, è stata messa ai margini della società dopo la rivoluzione, ma per tutto il XIX secolo ha rappresentato il cuore del movimento indipendentista cubano.
Lei ha scritto molti gialli, ed è noto, fra l'altro, per il ciclo di racconti che hanno come protagonista il tenente Mario Conde della polizia dell'Avana. Di questo suo ultimo romanzo parla come di un "poliziesco senza cadavere", vale a dire?
Nella struttura del romanzo vi sono molti elementi che ricordano quelli propri al racconto poliziesco. Ci sono ad esempio vari misteri che non vengono risolti fino alla fine del romanzo. Ho utilizzato questo metodo di scrittura e di costruzione della storia per far sì che il lettore sentisse la necessità di indagare in qualche modo sui personaggi e le loro vicende. In questa storia non c'è da scoprire un crimine violento, compiuto sul corpo di qualcuno, ma viene però compiuto un crimine di carattere letterario e morale nei confronti di Heredia. La società cubana ha spesso condannato chi ha avuto successo, che, dopo il trionfo finisce quasi sempre per essere marginalizzato: e questo è il destino che è toccato a José Maria Heredia.
Non è che questo "cadavere" che non si vede e non si trova, è in realtà rappresentato dal tema dell'esilio che attraversa il romanzo come la storia di Cuba: l'esilio voluto di chi ha scelto di lasciare l'isola e quello forzato di chi ne è stato cacciato?
Il tema dell'esilio è come una sorta di spina piantata tra le costole della società cubana. Solo per fare un esempio, anche la mia è una famiglia divisa dall'esilio. Questo per dire che non sto parlando di un tema che ho studiato sui libri, ma di qualcosa che ho vissuto e vivo ancora adesso. Uno dei miei fratelli cercò di fuggire dall'isola su un'imbarcazione improvvisata: per alcuni giorni restammo impauriti in attesa di sue notizie che però non arrivavano. Alla fine tornò a casa con la faccia piena di punture di zanzara, perché la barchetta si era insabbiata a duecento metri dalla riva e lui era dovuto tornare indietro. Oggi vive comunque a Miami. E come la mia, quasi tutte le famiglie cubane hanno vissuto qualcosa di simile. In qualche modo è come se l'esilio fosse una sorta di maledizione che perseguita i cubani, e questo fin dai tempi di José Maria Heredia che fu il primo grande esiliato della storia di Cuba. Anche perché l'esilio, nel caso cubano, non è solo il risultato di ragioni politiche, ma è spesso frutto di vicende economiche, sociali o affettive e familiari.
Nel destino di Heredia, e perciò nella storia che sta alla base di questo romanzo, sembra essere contenuta una metafora della difficoltà di fare il mestiere dello scrittore a Cuba. E' così?
Sì, credo che il fatto di fare lo scrittore in una realtà complessa come quella di Cuba, rappresenti una responsabilità sociale e politica molto grande. Nel caso di Heredia tutto ciò era evidente, nel caso del personaggio di Fernando Terry, che ripercorre per molti aspetti i passi compiuti dal poeta, ragioni politiche, sociali e anche burocratiche, lo costringeranno all'esilio. Oltre a loro, tutto il gruppo di scrittori di cui parlo nel romanzo e che sono riuniti in una sorta di circolo, si confrontano costantemente con questa relazione problematica tra il loro lavoro e il contesto circostante. Il rapporto complesso che esiste tra la scrittura, la vita culturale cubana, il potere. "Cosa si può scrivere, cosa non si può scrivere? ". Quanto pesa la censura, quanto pesa l'autocensura. Insomma, l'intero ambito di quesiti che si pongono ad uno scrittore cubano nel momento in cui comincia il suo lavoro letterario.
Intervista di Guido Caldiron - LIBERAZIONE 15/02/2005
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