"La mia è stata una
scrittura attraversata da continui soprassalti e interruzioni,
avevo la testa, il cuore, il sangue rivolti altrove". Così
Juan Gelman, poeta argentino, nato nel quartiere popolare di
Villa Crespo a Buenos Aires e costretto a un lungo esilio dalla
dittatura militare del generale Videla, descrive "la fatica
e la pena" che hanno segnato gli ultimi trenta anni della
sua vicenda umana e della sua ricerca poetica. Una ricerca
condotta nell'ambito della scrittura e dell' "inafferrabile"
ma che, come osserva il critico Jorge Boccanera, tragicamente e
indissolubilmente si lega a una ricerca più terrena,
"quella di sua nuora" rapita nell'agosto del 1976, al
pari del figlio Marcelo, dai militari del regime e rinchiusa in
un campo di concentramento sadicamente chiamato "Il
giardino". Da allora, Gelman non ha smesso di cercare, tanto
sul fronte della poesia, rivolgendosi a forme sempre nuove,
quanto su quello della memoria e della realtà più
terrena, scrivendo lettere, raccogliendo firme, intentando cause
pilota contro i militari e i loro protettori politici. "Il
dolore non si dimentica di me. Ombre, distanze, superfici, odore
di sospetti marci, affanni che non spostano i piedi. Vi è
paura nella memoria proibita". Per il recupero di questa
memoria, dichiara Gelman, "vale la pena lottare e soffrire.
Vale la pena scrivere", violare le porte e infrangere
divieti.
Il nostro incontro è avvenuto a Piacenza,
dove, nel corso della rassegna Carovane - quest'anno
dedicata al tema delle "Città invisibili", con
appuntamenti e concerti che animeranno la cittadina emiliana fino
a domenica 4 settembre - gli è stato assegnato il premio
internazionale di poesia Nicolás Guillén.
In
un testo titolato "Differenze", lei ha scritto
che "la poesia non è un destino". Come è
nata in lei la necessità, o la scelta, di affidarsi
proprio al registro poetico?
Comincio a scrivere
quando sento un rumore all'orecchio e mi prende un malumore
straordinario. Sento dentro di me un'ossessione. Quello che tutti
chiamano ispirazione per me è soltanto questo:
un'ossessione. Non so di preciso cosa mi accada. Potrei dire -
scherzando, ovviamente - che scrivo per leggermi e capire, a
posteriori, quello che mi accade. Quando avevo quattro, cinque
anni mio fratello maggiore si divertiva a recitarmi versi di
Puskin in russo. Ero molto piccolo e, ovviamente, non capivo
nulla. Però mi colpiva la musica di quei versi, il loro
ritmo. Molte volte ho pensato che quei suoni abbiano influito
radicalmente lasciando una impronta su di me. I miei genitori
provenivano dall'Ucraina, mio padre prese parte alla rivoluzione
del 1905, a Odessa. Era un operaio, un falegname, poi in
Argentina divenne un piccolo commerciante. Ma era uno di quegli
operai dell'est e del centro Europa che leggevano di tutto, così
la nostra casa era piena di libri di letteratura, di storia, di
politica e di economia. Ricordo come se fosse ieri la domenica in
cui presi dalla biblioteca Umiliati e offesi di
Dostoevskij e cominciai a leggerlo. Ne fui scosso a tal punto che
mi venne la febbre e mi durò due giorni. Favorito da
questo ambiente familiare cominciai a leggere poesia, mi sentivo
spinto da una misteriosa necessità. Tra le cose che mi
raccontava mia madre, ricordo una storiella in cui si parla di un
ragnetto che, per strada, incontra un millepiedi e gli domanda:
"Mi dica, come cammina lei? Cinquanta piedi prima, cinquanta
dopo. Alternati a dieci a dieci, a venti a venti... Come fa a
coordinare i movimenti?" Il millepiedi si ferma a pensare e
quel problema lo affligge, lo inchioda al suolo per il resto
della vita. Forse in poesia accade la stessa cosa. Comunque sia,
ci sono cose che davvero non so e altre che preferisco non
sapere. Altre ancora mi conviene non saperle. Occorre sedersi
davanti alla pagina bianca con la verginità che ci è
possibile e ci viene concessa, senza che i vecchi modelli
influiscano troppo - troppo consapevolmente intendo - su di
noi.
Tra i poeti e gli scrittori che più l'anno
influenzata ci sono, dunque, i russi.
Ovviamente, ma
anche i francesi e i poeti di lingua castigliana. Io credo che la
poesia non si possa studiare, ma la si può imparare dalla
lingua, soprattutto dalla lingua dei grandi poeti. Per questo
diffido delle traduzioni e cerco di rivolgermi a quelle lingue
alle quali posso avere un certo accesso. Il problema della poesia
è la musica, che ha le sue leggi, e esse stesse sono piene
di significato.
Julio Cortázar invitava a
leggere i suoi scritti come se si trattasse di procedere lungo un
sentiero irto di "curve e salite" fermandosi di tanto
in tanto "a quegli incroci dove la strada sembra esitare".
La sua scrittura, infatti, richiede attenzione proprio perché
si sviluppa seguendo continui salti di registro, dal sonetto di
Incompletamente, alle forme brevi dei Salari
dell'empio. Sembra, comunque, che lei si sia preoccupato di
non affezionarsi a uno stile particolare, ma abbia scelto la via
della ricerca di forme sempre diverse, senza peraltro cadere
nelle insidie dello sperimentalismo.
Anche questo
aspetto fa parte della mia ossessione. Pavese parlava di
ossessione servendosi di un'immagine molto bella. Diceva che è
come un grafico che inizia da un valore corrispondente a cento,
mentre la scrittura parte da zero. La scrittura si alza mano a
mano che comincia a esprimere l'ossessione, mentre l'ossessione
cala di pari grado, fino a che non si intersecano. Quando questo
succede vengono fuori i poemi più felici, che non sono
molti. Una volta trovato questo punto di intersezione, però,
il pericolo che si corre è quello di fermarsi lì,
ripetendosi, o ripetendo cliché e stili già
adottati. Una volta acquistata una certa tecnica, la scrittura
rischia di diventare mestiere. Per questo, credo sia necessario
mettere continuamente in discussione i risultati raggiunti,
rivolgendosi ad altre forme. Non bisogna avere il timore di
restare in silenzio, anche se non si scrive per due, tre anni.
Quando avevo trenta anni mi preoccupavo enormemente di questi
lunghissimi, interminabili tempi morti in cui l'ispirazione
veniva meno. Ma il problema è che non si scrive mai
poesia, si viene scritti dalla poesia. La poesia è una
signora molto occupata, poiché ci sono poeti dappertutto.
Bisogna aspettarla, non chiamarla. Non è questione di
pazienza o di volontà. Si tratta di attendere che arrivi
con ciò che ho chiamato ossessione. Le ossessioni - vale
per qualsiasi artista - sono poche, in fin dei conti. Ma, col
tempo, si sviluppa una sorta di spirale entro la quale la stessa
ossessione è guardata da un punto di vista sempre diverso.
Per questo cambiano le forme e la mia poesia segue stili molto
diversi.
Lei parla di ossessione, mentre altri autori,
in special modo francesi, parlano di una "ferita segreta",
un taglio nascosto che continua a sanguinare, come immagine di
questa creatività inafferrabile. Non a caso, uno dei suoi
lavori più noti ha per titolo Taglio. Tra le sue
pagine lei scrive "La poesia non fa sì che qualcosa
accada, disse W. H. Auden. A male pena sopravvive. Non disse
perché. Sopravvive come sopravvive l'impossibilità".
Mi
riconosco nell'immagine della ferita segreta. Di fatti, la prima
ferita che il bambino ha nella culla è la parola. La
parola che viene dal cuore. Tutti siamo stati - e molti di noi
continuano a esserlo, nel ricordo - feriti dalla parola che entra
nella culla provenendo da fuori. È la prima ferita e non
si chiuderà mai. Perché per alcuni questa ferita
passi per la scrittura, sanguini in parole, e per altri no, è
un mistero che non scioglieremo mai. È il mistero del
millepiedi di cui parlavamo prima.
Il suo lavoro sulla
poesia è sempre andato di pari passo con una attività
all'apparenza più prosaica, quella di giornalista. Come ha
conciliato questi due aspetti del suo lavoro di
scrittura?
L'anno prossimo sarà passato mezzo
secolo da quando ho cominciato a fare il giornalista. In esilio,
in verità, ho lavorato poco come giornalista e mi sono
riciclato come traduttore. Lavoravo all'Unesco e poi per altri
organismi delle Nazioni unite. Traducevo pratiche noiose. Anche
Cortázar lavorava su questo genere di testi. Julio era un
uomo molto modesto, non si prendeva sul serio. Penso che un
artista debba prendere molto seriamente il proprio lavoro, ma non
debba mai prendersi sul serio. Lui era proprio così:
rigoroso, ma molto, molto modesto. Comunque, tornando alla sua
domanda, quando ho iniziato a fare il giornalista non ero altro
che uno studente. Studiavo chimica e un giorno mi sono
detto che proseguendo per quella strada non sarei arrivato da
nessuna parte. Quello che volevo era scrivere poesia. Ho fatto
molti lavori, molta gavetta, e infine mi misi a cercarne uno in
cui la parola fosse importante. Ma ho sempre amato la cronaca,
perché mi permetteva di uscire dalla redazione e vedere
quello che succedeva per le strade di Buenos Aires. La cronaca e
l'intervista erano i generi che preferivo. Non credo che tra il
fare poesia e il lavorare sulla cronaca ci sia contraddizione.
Poesia e giornalismo sono buoni vicini che convivono in uno
stesso palazzo. Molti poeti argentini lavoravano come
giornalisti, anche se non pochi vivevano la cosa con grande
disagio.
Per quale ragione la appassionava la
cronaca?
In Argentina, in quel momento di relativa
prosperità economica, arrivavano persone da tutte le
parti. Buenos Aires era piena di cileni che venivano da Sud,
Boliviani dal nord, uruguaiani e paraguaiani. Poiché c'era
lavoro, c'era immigrazione. A me interessavano le riunioni
sindacali di base. Un uruguaiano parla castigliano, ma con delle
nuances, delle sfumature che arricchiscono la lingua di
partenza, e questo era ciò che mi interessava di più.
I problemi sono sempre gli stessi - il salario, il lavoro,
l'economia - ma qualcosa cambia nei dettagli dell'espressione che
si usa per manifestarli, e quei dettagli arricchiscono la lingua.
Accade ovunque, ma Buenos Aires era un vero crogiuolo di parlate.
Ho lavorato come capo della redazione di un giornale, Noticias,
e ho sempre desiderato una cosa davvero impossibile: che si
facesse cronaca prestando orecchio alle espressioni, alle
sfumature, alla musique della lingua parlata per strada.
Questa era la mia ambizione, ma nel giornalismo spesso prevalgono
altri aspetti, come la burocrazia, il formalismo, l'appiattimento
del linguaggio...
Crede che questa "ricchezza"
si sia preservata in Argentina, anche dopo gli anni neri della
dittatura e quelli del disastro di Menem?
L'Argentina
continua a possedere quella ricchezza. Però - è un
dato elementare ma converrà ricordarlo - l'Argentina è
tra le regioni del mondo in cui il divario tra ricchi e poveri è
più marcato. Si vive in un clima di profonda ingiustizia
sociale, è un fatto curioso, un paradosso, visto che
continuiamo a considerarla parte dell'Occidente. Ma questo
Occidente è una disgrazia. Da qualche tempo - penso al
Brasile, all'Uruguay e all'Argentina stessa - ci sono governi che
cercano di muoversi con una certa indipendenza, cercando di
sottrarsi, per quanto possono, alle ingerenze del Fondo monetario
internazionale. Kirschner, a mio parere, ha tenuto nei confronti
del Fmi una posizione più dura rispetto a quella di Lula
in Brasile. A questo proposito ha fatto una operazione molto
interessante e coraggiosa relativamente al problema del debito
estero. Comunque, la questione vera è che ha ereditato una
Argentina in crisi nera, una crisi terribile. Menem ha
saccheggiato tutto, mentre quello che è venuto dopo di
lui, De la Rua, era un emerito incapace. Hanno lascito una
eredità molto pesante, pensi solo agli indici di
disoccupazione, alle disuguaglianze economiche e sociali. Ci
vorranno anni, generazioni intere, se tutto va per il verso
giusto, per rimettere le cose a posto. Questo è il
problema immediato. Perché dal punto di vista dei diritti
umani, Kirchner è andato molto lontano. Ha spazzato via
una cupola militare che pretendeva l'impunità per i
crimini commessi durante la dittatura e ha fatto dimettere i
membri corrotti della Corte suprema di giustizia. I processi
congelati da Alfonsín - che comunque fu il primo a
promuoverli, anche se poi si tirò subito indietro - sono
finalmente ripresi. Menem ha continuato ad assicurare impunità
a tutti, nel tentativo neppure troppo mascherato di distruggere
la memoria civile. Le madri di Playa de Mayo hanno fornito un
antecedente, una sorta di anticorpo che ha impedito a questo
lavoro di rimozione di giungere fino in fondo. Queste donne, in
piena dittatura nel 1977 - ripeto: in piena dittatura e possiamo
immaginarci che cosa questo significasse - hanno cominciato la
ronda, davanti alla sede del governo. Hanno mantenuto viva la
fiamma della memoria e della resistenza in momenti in cui la
resistenza della classe operaia era bassa a causa della
repressione. Repressione dei militari e dei padroni. La Mercedes
Benz passava ai militari i nomi di operai che cercavano di
riunirsi in assemblee costituendo comitati di base o che
avanzavano rivendicazioni salariali, e i militari
"convertivano"questi lavoratori in desaparecidos.
Nel
gennaio del 2000, Marcos le ha indirizzato una lettera aperta
titolata 5.56 mm Nato, il calibro del proiettile che,
molto probabilmente, ha ucciso suo figlio. Marcos la definisce un
poeta insensato, "perché adesso, in questi tempi,
così si chiamano coloro che non si arrendono né si
adattano", riferendosi alla sua battaglia per la ricerca
della verità sulla sorte di sua nuora e della sua
nipotina.
I problemi sono complessi. A Marcos non ho
mai risposto. Ci sono iniziative molto diverse, lotte diverse e
di diversa qualità, che si incrociano in un senso molto
generale - ideale, spirituale e via dicendo - che forse, un
giorno, arriveranno allo stesso punto. Non mi considero un
campione dei diritti umani, tanto meno un simbolo. Semplicemente,
con mia moglie, che non è la madre dei miei figli, ho
deciso di lottare per conoscere la verità. Tutto questo mi
costa molto e ha provocato molte reazioni politiche. Noi crediamo
nel caso. Nel caso specifico, intendo, poiché quando si
parla di numeri, il caso sparisce. Si dice che i desaparecidos
siano stati trentamila, centomila, diecimila, e tutte le storie
personali - il dolore, la rabbia, la vita - sono assorbite dalla
cifra. Al contrario, quando si sottolinea una caso particolare,
allora anche tutti gli altri si illuminano. È il volto che
riappare. Non il numero.
Intervista di Marco Dotti IL
MANIFESTO 31/08/2005
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